Le manifestazioni sempre più numerose contro la strategia Zero Covid, la crisi economica, la fuga delle aziende straniere: tutti fenomeni che riguardano soprattutto i ventenni. E questa generazione che contesta i ritmi forsennati del lavoro può mettere in forse il consenso al partito

Concluso il Ventesimo Congresso del Partito comunista cinese, Xi Jinping ha ricominciato a mettere mano alla politica estera del Paese. Senza mascherina e in vena di grandi strette di mano e abbracci (come nel caso dell’incontro con il suo omologo vietnamita) Xi Jinping è sembrato più rilassato rispetto ad altre occasioni diplomatiche: l’anno del Congresso è impegnativo, significa parare attacchi, preparare strategie e assicurarsi che alla fine tutto vada come doveva andare.

 

Xi Jinping può ritenersi soddisfatto: il Partito comunista è sempre più nelle sue mani, formato nei livelli apicali da suoi fedelissimi e senza più fazioni o correnti a contendere un potere che a questo punto sembra ormai illimitato. Al G20 in Indonesia a metà novembre, Xi Jinping si è così presentato tirato a lucido e per prima cosa ha riportato all’interno di binari quanto meno di educazione i rapporti con gli Stati Uniti, interrotti questa estate dopo l’improvvido viaggio di Nancy Pelosi a Taiwan.

 

L’incontro con Joe Biden è stato salutato da tutti gli osservatori internazionali come un elemento positivo, considerando la situazione attuale del mondo, stretto tra la guerra in Ucraina e una crisi economica internazionale che sembra non essere ancora arrivata al suo picco. E proprio quest’ultimo aspetto è quello che preoccupa di più la dirigenza del Partito comunista cinese: per questo era necessario riportare un po’ di calma nell’ambito della diplomazia (anche per quanto riguarda i rapporti con alcuni Paesi, come ad esempio Francia, Canada, Giappone e Australia) così da dedicarsi alla politica interna, piena di insidie e di crisi tutte cinesi.

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Intanto è bene precisare che alcune preoccupazioni per Xi Jinping potrebbero arrivare proprio dalla sua tracotante vittoria all’ultimo Congresso: Xi Jinping si è auto confermato per un terzo mandato e ha sistemato nei gangli più rilevanti del Partito funzionari che al momento hanno per lo più dimostrato di essere fedeli al grande capo, prima ancora che essere efficienti e capaci di affrontare un momento delicato come quello che sta vivendo la Cina. A questo proposito un grande osservatore del Paese, Minxin Pei, su Foreign Affairs, ha fatto un paragone che Xi Jinping farebbe bene a tenere a mente: «In alcuni modi importanti e intriganti, l’esito del Ventesimo Congresso del Partito comunista ricorda quello del Nono Congresso del Partito nell’aprile 1969. Lì, Mao Zedong raggiunse l’apice del suo potere. Proprio come avrebbe fatto Xi cinque decenni dopo, Mao usò il Congresso del Partito per riempire il Politburo e il suo Comitato Permanente di lealisti. Ma il predominio di Mao rese il partito meno stabile, non di più: in assenza di un piano di successione, emerse una brutale rivalità tra i suoi seguaci, che formarono fazioni duellanti. Il risultato finale fu un disastro».

 

Tre anni dopo la morte di Mao nel 1976, fa notare Minxin Pei, «la sua eredità era in rovina, un suo ex rivale dirigeva il partito e il Pcc aveva abbracciato riforme basate sul mercato che sarebbero state un anatema per Mao». Leggendo queste parole viene subito in mente un nome: Li Qiang, attuale numero due del Partito ed ex segretario del Partito di Shanghai. Li Qiang è candidato a essere nominato premier a marzo, quando in Cina si svolgeranno i lavori dell’Assemblea nazionale, ovvero a governare le manovre economiche del Paese. E questo fatto pone già un primo interrogativo di natura economica: alla fine del Ventesimo Congresso le azioni delle aziende tecnologiche sui mercati internazionali sono crollate. Questo è accaduto perché negli ultimi tempi Xi Jinping ha portato avanti una campagna violentissima contro le società private, con l’intento di riportarle all’interno dei desiderata della dirigenza del Pcc. Questa campagna di rettificazione ha creato un più generale clima di grande incertezza per tutte le aziende private che operano in Cina. Li Qiang è conosciuto per essere un fautore di riforme economiche capaci di tenere conto delle esigenze delle imprese private e la domanda che ci si pone è quanto questa sua caratteristica sarà più o meno confermata nel suo ruolo da premier, cioè alle dirette dipendenze di Xi Jinping, il cui marchio di fabbrica è una chiara impronta statalista.

 

Ma i problemi economici interni della Cina sono diversi. Non a caso il primo atto del nuovo Partito è stato quello di portare un po’ di ossigeno a uno dei settori più in crisi del Paese, quello dell’immobiliare. Gli investimenti nel mattone sono stati da sempre una delle leve economiche della crescita cinese, ma i grandi gruppi immobiliari hanno finito per creare dei debiti mostruosi, portando il settore sull’orlo della bancarotta. All’inizio la politica del Partito è sembrata improntata a limitare i danni, cercando di sostenere soprattutto quei cittadini che avevano comprato case che non saranno mai costruite. Poi altre contingenze, come ad esempio le continue chiusure a causa della politica del Covid zero, hanno portato a un sostegno più radicale a tutto il settore in modo da rimettere in piedi aziende sull’orlo del fallimento e riportare il comparto fuori dalla bolla nella quale sembrava essere sprofondato. Anche perché le stime di crescita della Cina non sono esattamente ottimiste; perfino la Banca centrale ha ipotizzato un 3,5% che costituirebbe un brusco rallentamento per la notoria crescita cinese. Gli aiuti al settore immobiliare (centinaia di miliardi di dollari) dovrebbero mettere in pausa la crisi in atto, ma non trasformare la quantità in qualità, come da tempo vorrebbe la leadership del Pcc.

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I problemi sono però troppi per soffermarsi su questi dettagli: uno dei motivi del rallentamento economico è dovuto proprio alla politica “Zero Covid”, che Xi Jinping si è intestato. A causa dei lockdown improvvisi i problemi per Pechino sono diventati di due tipi: da un lato c’è quello economico, dall’altro c’è quello di natura sociale. Per quanto riguarda il primo aspetto, la chiusura di fabbriche ha provocato gravi intoppi alla supply chain globale, portando molte aziende a produrre fuori dalla Cina. Il caso più eclatante è quello di Apple, che porta con sé un altro dilemma per Pechino. A novembre Apple ha annunciato l’uscita del primo iPhone 14 prodotto interamente in India: come ha sottolineato il Guardian «è la prima volta che Apple ha prodotto un nuovo iPhone al di fuori della Cina nello stesso anno in cui è stato rilasciato. È anche un passo importante in uno dei processi più delicati di Apple: separare le sue fortune da quelle delle relazioni sino-americane». Apple sospetta che la guerra tecnologica tra Cina e Usa possa stritolare anche le grandi aziende e quindi ha deciso di cominciare a diversificare. Allo stesso modo però, per non sbagliarsi, continua ad accettare le richieste del governo di Pechino quando c’è da censurare qualcosa, come è accaduto di recente con AirDrop, le cui funzionalità sono state cambiate solo per il mercato cinese perché il Pcc teme che attraverso il servizio di scambio di file girino informazioni sulle proteste contro il Pcc.

 

E qui arriviamo al secondo punto saliente causato dai lockdown, ovvero le manifestazioni di grande insofferenza della popolazione delle città chiuse all’improvviso. Quindi, vanno via le aziende, cala il mercato interno e aumenta il rischio di instabilità sociale. A questo si aggiunge un altro elemento, di cui si parla molto poco: la disoccupazione giovanile. Come riportato da Caixin, prestigiosa rivista economica cinese, «Quasi un giovane cittadino cinese su cinque era disoccupato a luglio, un record da quando i dati hanno iniziato a essere pubblicati all’inizio del 2018. Le loro possibilità di trovare un lavoro sono state colpite da una tempesta perfetta di perturbazione economica e incertezze. I blocchi del Covid-19 hanno costretto milioni di aziende a chiudere i battenti, mentre le restrizioni normative sui settori della tecnologia e del tutoraggio privato hanno provocato massicce ondate di licenziamenti».

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Si tratta di un fenomeno assolutamente sotto traccia, mascherato dal nazionalismo che Xi Jinping ha fomentato negli ultimi tempi, e tenuto distante dal dibattito pubblico dai media controllati dal Partito. Ma il problema esiste e comincia a essere preoccupante: secondo Caixin, mentre il tasso di disoccupazione ufficiale rilevato tra giugno e settembre 2022 per i lavoratori urbani era del 5,4% (numero considerato nella media), la disoccupazione tra chi ha dai 16 ai 24 anni «era più del triplo, il 19%». E se i più giovani sono quelli che più di tutti soffrono il lockdown e hanno già dimostrato di saper contestare i ritmi forsennati di molte aziende cinesi, questi dati rendono ancora più chiaro chi potrebbe mettere in difficoltà, socialmente, il dominio di Xi Jinping: quei giovani poco irretibili dai mantra preferiti di Xi Jinping: la stabilità e l’ordine sociale.