Quella della violenza sulle donne, nonostante dati e statistiche, è una realtà troppo spesso ignorata o sottovalutata. E ci dice molto sulla nostra società

Qualche giorno fa la presidente del Consiglio ha risposto alle non poche polemiche relative al decreto anti-rave con queste parole: «È una norma che rivendico e di cui vado fiera perché l’Italia – dopo anni di governi che hanno chinato la testa di fronte all’illegalità – non sarà più maglia nera in tema di sicurezza».

 

In verità, se andiamo a consultare i dati forniti a dicembre scorso dalla Polizia criminale, i reati calano: «Sono in lieve crescita (5,4 per cento) in Italia nel 2021 rispetto al 2020, caratterizzato dal calo verticale dei reati, ma comunque in calo del 12,6 per cento in confronto al 2019». Tranne che per i femminicidi: «116, come nel 2020, a fronte dei 110 del 2019, su un totale di 289 omicidi». Continuiamo con i numeri, per favore. Se consultiamo i dati forniti da Istat relativi al 2020, vediamo che gli omicidi con vittime maschili sono diminuiti in 26 anni (da 4,0 per 100.000 maschi nel 1992 a 0,7 nel 2018), mentre le vittime donne di omicidio sono rimaste complessivamente stabili (da 0,6 a 0,4 per 100.000 femmine). Significa che nel caso degli uomini ci sono stati progressi, mentre per le donne le cose sono andate peggiorando proprio perché rimaste identiche.

 

Per quanto riguarda l’anno in corso, secondo il dossier annuale del Viminale, tra il primo agosto 2021 e il 31 luglio 2022 nel nostro Paese sono state uccise 125 donne, in aumento rispetto alla rilevazione precedente.

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Inoltre, sono state registrate 15.817 denunce per stalking, 3.100 ammonimenti del questore e 361 allontanamenti per lo stesso reato. Difficile dire quali siano i numeri reali, perché, secondo Istat, i tassi di denuncia «riguardano il 12,2 per cento delle violenza da partner e il 6 per cento di quelle da non partner».

 

La sicurezza, già. Qualche mese fa, su questo giornale, ricordavo quanto scritto da Paolo Del Debbio in Appunti per un programma conservatore, bozza su cui Fratelli d’Italia avrebbe costruito il proprio programma: lo Stato, diceva, deve garantire sicurezza perché «non è possibile accettare che una donna non possa tornare a casa da sola senza essere importunata». Il problema è che la violenza o la morte avvengono non in strada e non per mano di un estraneo: sempre Istat ci ricorda che «delle116 donne uccise nel 2020, il 92,2 per cento è stata uccisa da una persona conosciuta. Per oltre la metà dei casi le donne sono state uccise dal partner attuale, in particolare il 51,7 per cento dei casi, corrispondente a 60 donne, il 6,0 per cento dal partner precedente, pari a 7 donne, nel 25,9 per cento dei casi (30 donne) da un familiare (inclusi i figli e i genitori) e nell’8,6 per cento dei casi da un’altra persona che conosceva (amici, colleghi, ecc.)».

 

Se avete letto fin qui, sapete che questi sono appunto numeri e fatti, e che questi numeri e questi fatti non sono una novità, perché da anni vengono resi pubblici, commentati, diffusi. Ma con ogni probabilità sapete anche che tutto questo non basta per far comprendere che la violenza sulle donne è un problema reale: è molto più semplice credere alla periferia degradata e al molestatore ignoto che comprendere che l’assassino e spesso lo stupratore sono persone che le donne conoscono già, si tratti di un familiare o di un amico che sembrava tanto per bene. Faccenda antica.

 

Nel 2007, dopo la morte di Giovanna Reggiani a Roma si scatenò una caccia al rumeno, complici certe improvvide dichiarazioni politiche: e anche allora si parlò di emergenza sicurezza. L’emergenza, in quell’anno, non c’era: gli omicidi e i reati erano ai livelli più bassi rispetto a tutto il ventennio precedente. Mentre crescevano tragicamente i reati commessi fra le pareti domestiche: uno su quattro degli omicidi avveniva in casa. Sette volte su dieci la vittima era una donna.

 

Oggi siamo ancora in stallo. Leggiamo i nomi. Alexandra, Giulia, Carol, Simona, Rosa. Conosciamo i modi: per arma da fuoco, per martello, per coltello, per soffocamento, per acqua e per fuoco. Ma dal punto di vista dell’immaginario, al di là delle manifestazioni che vengono organizzate per il 25 novembre (e, certo, nonostante l’enorme lavoro dei Centri antiviolenza e dei femminismi), non riusciamo a costruire un’alternativa: che, per esempio, parta dalle scuole e permetta di introdurre corsi di educazione sentimentale e sessuale per poter ragionare sul maschile e sul femminile, senza che qualcuno blocchi tutto evocando lo spettro del gender. Succede continuamente, succederà in futuro.

 

Già la stessa parola, femminicidio, fatica ancora oggi a diffondersi, a circa trent’anni dal suo conio: è brutta, è cacofonica, non ha senso, non mi piace, è scorretta, dicono, e chiunque l’abbia pronunciata o scritta su un social conosce le reazioni. Che in molti casi si accompagnano alla negazione del fenomeno: gli uomini muoiono di più, viene detto. Le donne sono ugualmente violente, si insiste. E quasi nessuno accetta un’evidenza semplicissima: se abbiamo davanti un’incidenza percentuale che ci dice che, a differenza di altri delitti, il femminicidio non cala come gli altri crimini, si dovrebbe concludere – e sarebbe logico farlo – che abbiamo un problema. I tanti presunti fact-checker che si sono espressi negli anni e rialzano la testa alla prima occasione utile concludono, invece, che non lo abbiamo.

 

Bisognerebbe agire sul prima, o quanto meno capire com’è, quel prima. Come hanno fatto, per esempio, le due studiose Lucia Bainotti e Silvia Semenzin nel libro “Donne tutte puttane”, pubblicato da Durango, e nei loro successivi lavori: spiegano molto bene come i gruppi Whatsapp o Telegram di ragazzi che si scambiano video intimi di ragazze senza il loro consenso siano determinanti per la costruzione di un maschile tossico.

 

Che non necessariamente sfocerà in violenza fisica, certo, ma che incide pesantemente sulla formazione di quella mascolinità. Le due studiose sostengono che la struttura stessa di alcune piattaforme favorisca la creazione di gruppi di soli maschi basati sulla solidarietà reciproca. Una forma di conferma e rassicurazione davanti alla crescente libertà delle donne, e una forma spietata di oggettivazione dei loro corpi. Qualcosa di simile avviene, a pensarci bene, nelle ondate di odiatori che si rivolgono sui social a donne autorevoli e visibili per annichilirle: recentemente, Laura Boldrini ha postato sui suoi profili una serie di interventi violentissimi che lascia senza fiato. Non è violenza fisica, ma è violenza comunque.

 

Il che fare va al di là delle leggi repressive. Bisognerebbe superare le cronache. Bisognerebbe, anche, saper raccontare al di là del libriccino d’occasione. Come fece colui che trasformò in letteratura l’inchiesta di Sergio González Rodríguez, “Ossa nel deserto”, condotta sul luogo da cui nacque la stessa parola femminicidio. Ciudad Juárez, nello Stato messicano del Chihuahua, dove le donne morirono a centinaia. Lo fece, in “2666”, Roberto Bolaño, che alla domanda su come si immaginasse l’inferno, rispose: «Come Ciudad Juárez, che è la nostra maledizione e il nostro specchio, lo specchio inquieto delle nostre frustrazioni e della nostra infame interpretazione della libertà e dei nostri desideri».