Dagli Usa all’Africa, dall’Europa all’Asia: i siti inquinati e le discariche si concentrano nelle zone popolate da poveri e minoranze. E le malattie fiaccano ogni possibilità di resistenza

Dicono che i danni ambientali non facciano distinzione tra bianchi e neri, tra ricchi e poveri. E che se l’aria o l’acqua sono inquinate, lo sono per tutti. Probabilmente è vero. Ma non lo è del tutto. Perché, statisticamente, le industrie e le discariche più inquinanti e pericolose, tendono a collocarsi in aree popolate da minoranze povere. E, in modo eguale e contrario, le abitazioni vicine ai siti più inquinati e inquinanti, finiranno con l’essere abitate da persone che appartengono a minoranze povere. Di come queste cose si intreccino e siano consequenziali l’una all’altra, si occupa una branca particolare dell’ambientalismo, che si chiama giustizia ambientale e che, a ben guardare, non ha niente a che fare con la tutela dell’ambiente. Ma con quella delle persone.

 

Di giustizia ambientale, per esempio, si occupano gli attivisti della Cancer Alley, nello Stato americano della Louisiana: un tratto di 137 chilometri tra Baton Rouge e New Orleans, dove si concentrano circa 150 impianti e raffinerie petrolifere. Una quantità enorme, da cui proviene, tanto per farsi un’idea, il 25 per cento del totale della produzione petrolchimica statunitense. La popolazione della zona (circa 45 mila persone) è per lo più nera e, nel 16 per cento dei casi, vive al di sotto della soglia di povertà.

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Oppure è il caso, celeberrimo, della città di Flint, in Michigan, che, sede della General Motors, fino agli anni ’80, è stata una delle città con la miglior qualità della vita d’America. Poi, quando l’auto è andata in crisi e l’incanto si è rotto, chi ha potuto (cioè le persone più benestanti) se n’è andato altrove, a studiare o a cercare un altro lavoro: chi invece, per mille motivi non aveva la possibilità, i mezzi, o la forza di andarsene, è rimasto dov’era, in una città ogni giorno sempre più spopolata, decadente e povera. Talmente povera da decidere, per risparmiare, di usare per le tubature della città l’acqua del fiume locale. Che però conteneva livelli altissimi di piombo e che, in pochi anni, ha generato una delle peggiori emergenze ambientali d’America.

 

Ma non serve andare fino in America per trovare legami piuttosto stretti e proporzionali tra povertà e inquinamento della zona in cui si vive. Basta pensare ai quartieri costruiti a ridosso delle zone industriali delle città come i Tamburi a Taranto oppure ai campi profughi e rom costruiti nelle periferie delle nostre città, tra scarti industriali, acque inquinate e copertoni. Il caso peggiore, almeno in Europa, è forse quello della maxi discarica-baraccopoli di Pata Rat, in Romania, considerata la più grande d’Europa, dove vivono, da anni, ammassati tra i rifiuti, almeno 1.500 persone. Ma il caso di Pata Rat non è il solo. Anzi. Il rapporto “Pushed to the wastelands: Environmental racism against Roma communities in Central and Eastern Europe” di European Environment Bureau, ha censito alcune centinaia di luoghi malsani in cui vivono le persone rom.

 

«In Romania circa la metà dei 621 mila rom vive vicino o direttamente nelle discariche. In Bulgaria l’89 per cento dei rom non ha accesso all’acqua; e in Macedonia sono stati segnalati diversi casi in cui i rom sono stati sgomberati con la forza e trasferiti in aree industriali fortemente inquinate. Gli insediamenti rom sono spesso collocati vicino a complessi minerari e industriali, ex basi militari e discariche. Inoltre, gli insediamenti rom fungono da depositi per gli scarichi di rifiuti altamente pericolosi provenienti da città, industriali e minerari», scrivono i ricercatori. Sempre lo stesso rapporto cita il fatto che «tra il 1999 e il 2013, le Nazioni Unite hanno ospitato circa 600 membri di famiglie rom, ashkali ed egiziane balcaniche, sfollati durante il conflitto in Kosovo, in campi costruiti su terreni tossici contaminati da piombo. I campi sono stati allestiti vicino al complesso industriale di Trepça, contenente una fonderia di piombo e tre bacini di raccolta dei rifiuti. La struttura era nota per essere la fonte di contaminazione da piombo e altre forme di inquinamento tossico nell’area sin dagli anni ’70. Rapporti di avvelenamento da piombo tra i residenti del campo erano disponibili già nel 1999 e nel 2000 sono state adottate misure protettive per prevenire l’esposizione al piombo per i soldati di mantenimento della pace. Le misure preventive per i residenti rom non sono state prese fino al 2006. Si ritiene che il piombo in sospensione abbia contribuito alla morte di diversi bambini e adulti».

 

E se questa è la situazione nell’occidente di Stati Uniti e Europa, in Asia, in Africa e in America Latina le cose sono peggiorate dal fatto che, oltre al fortissimo inquinamento di acque, terreni e aria, dovuto per lo più alle attività di industrie occidentali si somma un costante afflusso di rifiuti (specie elettronici) dall’Occidente. I rifiuti confluiscono (o sono confluiti per anni) in discariche enormi, come quella di Agbogbloshie, un gigante da 11 ettari ricoperti di rifiuti inquinanti nel cuore di Accra, capitale del Ghana, a ridosso del quale sorge la baraccopoli di Old Fadama, dove abitano (per così dire) circa 40 mila rifugiati.

 

Ognuno di questi casi, preso singolarmente, rappresenta certamente un’ingiustizia intollerabile, ma non dà il quadro completo.

 

Per ottenerlo, il quadro completo, occorre guardare dall’alto le mappe che sovrappongono la distribuzione delle fabbriche e delle discariche più inquinanti e inquinate con quella della popolazione. Se si sovrappongono, si nota che si ripete pressoché ovunque una condizione di sostanziale e reciproca sovrapposizione tra miseria ed emarginazione e insediamenti di siti inquinanti.

 

Sulla base di questa costante (e verosimilmente non casuale) sovrapposizione tra miseria e inquinamento e inquinamento e miseria è nato il concetto di “razzismo ambientale”. Secondo la definizione che ne ha dato, nel 1982, ai tempi di una lotta per impedire l’insediamento di una discarica di rifiuti tossici a ridosso di una città povera e prevalente nera del North Carolina, l’attivista dei diritti civili Benjamin Chavis, il razzismo ambientale è una forma di razzismo sistemico, ossia una forma di razzismo silente ed implicito, non visibile nel suo manifestarsi, ma nei suoi effetti. In particolare, secondo Chavis, il razzismo ambientale si concretizza nella «definizione delle politiche ambientali, l’applicazione di regolamenti e leggi, il deliberato targeting delle comunità di colore per gli impianti di rifiuti tossici, l’approvazione ufficiale della presenza pericolosa per la vita di veleni e inquinanti nelle nostre comunità e la storia dell’esclusione di persone di colore dalla leadership dei movimenti di ecologia».

 

Opporsi a questa forma di razzismo è particolarmente difficile. Sia perché, per evidenti ragioni, più le comunità sono povere, meno sono aggregate e meno hanno capacità di fare pressione politica. Sia perché spesso, chi vive in aree inquinate, si ritrova ad affrontare problemi di salute (come tumori, asma, infezioni, debolezza cronica) che ne limitano di molto la resistenza, oltre che la volontà. Da ultimo perché la presenza delle minoranze povere, anche nei gruppi ambientalisti più sinceri e meglio intenzionati è estremamente limitata. Scrive New York Times che «sebbene le comunità nere sopportino le difficoltà sproporzionate della crisi ambientale, storicamente sono state escluse dal movimento ambientalista».

 

Un sondaggio del 2018 condotto da Dorceta Taylor , professoressa presso la School for Environment and Sustainability dell’Università del Michigan, ha rilevato che i bianchi costituivano l’85 per cento del personale e l’80 per cento dei consigli di amministrazione di 2.057 organizzazioni non profit ambientali. L’anno scorso, un rapporto pubblicato da Green 2.0, una campagna di advocacy indipendente che esamina l’intersezione tra questioni ambientali e razza, ha mostrato che le persone di colore costituivano solo il 20 per cento del personale di 40 organizzazioni non governative ambientaliste.

 

Così in questo quadro di paralisi che genera se stessa, e di indifferenza (più che di razzismo) sistemico, si innesta un altro (e relativamente nuovo) elemento, se possibile peggiore rispetto ai danni da inquinamento, ossia quello dei disastri ambientali. Uno studio condotto dalla Rice University e dall’Università di Pittsburgh, ha rilevato che, a parità di esposizione a disastri climatici, le contee bianche, dopo esserne state colpite, hanno sempre visto un aumento della ricchezza media; quelle a prevalenza afroamericana o latina, invece no. E il giro ricomincia.