Il commento
La legge Bossi-Fini è sbagliata e alimenta il lavoro nero. Meloni la cambierà?
La norma prevede un paradosso: per lavorare un immigrato deve essere in regola, ma per essere in regola deve avere un lavoro. E in questo testacoda finiscono migliaia di persone
Vent’anni dopo, potenza del contrappasso, potrebbero essere Meloni e Salvini, neo premier e vice, leader di FdI e della Lega, a dover correggere storture e insufficienze della legge sull’immigrazione firmata nel 2002 dai loro papà Bossi e Fini, allora capi dei leghisti e dei postfascisti di An, ministro delle riforme l’uno, vicepresidente del Consiglio l’altro nel secondo governo Berlusconi. Fa bene Gloria Riva a notarlo a conclusione del suo allarmante rapporto su un male che sta diventando endemico: le aziende cercano personale, ma non lo trovano. O non possono averlo. E lanciano l’allarme.
La manodopera italiana non basta, o non ce n’è, o ignora le offerte di lavoro. Per più di una ragione: mentre la società invecchia, molti giovani cercano all’estero specializzazioni che non trovano qui, o un futuro migliore; per chi resta non c’è formazione coerente con le nuove esigenze di mercato; per non dire delle condizioni di lavoro e di paga che molti ragazzi non hanno più intenzione di accettare. Non resta dunque che ricorrere agli stranieri.
A governare tutto, Riva lo spiega bene, è appunto la Bossi-Fini che non solo contingenta i flussi, ma è costruita come il romanzo-film “Comma 22” il cui fatidico paradosso - «Chi è pazzo può essere esentato dalle missioni di volo, ma chi vuole essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo» - potrebbe essere parafrasato così: per poter lavorare un immigrato deve essere in regola, ma per essere in regola deve avere un regolare posto di lavoro. E tutto si ferma. Con le conseguenze denunciate dagli imprenditori, molti dei quali rappresentano proprio quel Nord produttivo che ha votato a destra: servono ogni anno 350mila tra carpentieri, elettricisti, infermieri, ingegneri, camerieri, muratori, addetti alle pulizie, ne sono disponibili solo 70mila. Del resto l’Italia è, in Europa, tra i Paesi con il minor numero di immigrati (9 per cento della popolazione, 13 in Germania, 23 in Svezia).
Non è un caso allora che la piaga del sommerso dilaghi: dice l’Istat che nonostante il fermo da Covid e lockdown, sono ancora tre milioni i lavoratori in nero, in ogni settore, e poco o nulla è stato fatto nemmeno per arginare il ricatto del caporalato che riduce gli uomini a schiavi e inquina l’intero mercato del lavoro. Spesso con la condiscendenza degli stessi imprenditori che si avvantaggiano di costi bassi e di manodopera senza diritti. I ritardi culturali, le polemiche di comodo su ius soli e ius scholae colpiscono anche chi sta qui da anni se perfino una campionessa della pallavolo come Paola Egonu, nata in Veneto, italiana di pelle scura, decide di lasciare la nazionale e il suo Paese per i continui insulti razziali e sessuali.
In tempi di guerra, di inflazione alta e di crescita zero, non sono questioncelle. La Caritas ha pubblicato dati drammatici sulla diffusione della povertà: 5 milioni e mezzo di italiani, il dieci per cento della popolazione, sono in miseria. Nel frattempo si torna a discutere di reddito cittadinanza che, come si sa, piace poco alla destra, ma è oggi incassato da due milioni e mezzo di persone. Non si può fare a meno di incrociare i due dati: anche se i giovani sdraiati sui divani e i furbetti con reddito in tasca e secondo lavoro in nero fossero solo un’invenzione polemica, resta il fatto che almeno tre milioni di italiani vivono senza lavoro e senza soldi. Parafrasando facili slogan sbandierati in questi mesi, verrebbe da dire alla coppia Meloni-Salvini che povertà e disoccupazione non sono né di destra né di sinistra. E che ora tocca a loro.