Sintesi di romanità e simbolo del Paese, l’anfiteatro Flavio è oggetto di studi continui e non manca di svelare nuovi segreti

Verso sera ci recammo al Colosseo… Quando si contempla una cosa simile, tutto il resto sembra un’inezia». Così annotava Goethe l’11 novembre del 1786 durante la sua permanenza romana; ma già nel Quattrocento l’Anfiteatro aveva iniziato a ispirare poeti, scrittori e artisti con la sua imponente monumentalità.

 

Una storia lunghissima, la sua: iniziata nell’80 d.C., quando fu inaugurato dall’imperatore Tito (ma terminato dal fratello Domiziano), con la fine degli spettacoli all’inizio del VI sec. d.C., e proseguita ospitando all’interno edifici, orti, cappelline, magazzini, cadendo poi nell’abbandono, fino a risorgere e diventare simbolo per antonomasia della romanità, se non dell’intero Paese.

 

Indagato con sistematicità dal secolo scorso, oggetto di continui restauri, sembrava non avere più segreti; invece, recenti indagini nel sottosuolo aggiungono tasselli alla sua conoscenza, mentre ulteriori ricerche che L’Espresso può anticipare consentiranno di comprenderlo ancora di più.

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Un’importante documentazione sul sistema idraulico arriva dalle esplorazioni appena concluse nella canalizzazione sotterranea, antica e moderna. Ora sappiamo come si faceva arrivare l’acqua nel Colosseo e quali fossero le fognature impiegate per regimentarne il deflusso.

 

Nell’edificio che conteneva oltre 50.000 spettatori, funzionava in modo perfetto una complessa struttura che convogliava le acque meteoriche e quelle utilizzate per la pulizia delle gradinate in un canale disposto intorno all’arena. Da qui sotto partivano quattro collettori orientati secondo i punti cardinali, che si collegavano a nord e smaltivano il loro contenuto nel Tevere. L’Anfiteatro era servito da un serbatoio del vicino acquedotto Claudio, e durante le recenti esplorazioni si è scoperta un’ulteriore fonte di approvvigionamento: sempre sul Celio, è stato individuato un corso d’acqua sorgiva limpidissima. Era quindi da questo colle che si provvedeva anche ad allagare il Colosseo per particolari spettacoli.

 

I lavori sono rientrati nel finanziamento Grandi Progetti dei Beni culturali, per la direzione scientifica di Martina Almonte e Federica Rinaldi. È stato un impegno multidisciplinare che ha coinvolto gli speleologi di Roma Sotterranea, architetti, archeologi, con strumenti tecnologici d’avanguardia, a cominciare da robot filoguidati. Restano punti da chiarire - sarà dedicato loro un convegno - ma i risultati hanno superato le aspettative: nella sequenza cronologica dei canali rivolti a sud si è scoperto che il primo impianto delle fognature precede la costruzione del Colosseo. I bolli laterizi si riferiscono alla dinastia giulio-claudia; quindi, la fognatura su questo lato potrebbe in parte riferirsi a quella che girava intorno al lago costruito da Nerone per la sua Domus Aurea.

 

Di grande interesse si è rivelato pure lo svuotamento per 60 metri del collettore sud, con il recupero di oggetti della vita quotidiana: dadi da gioco, pettini, una bella moneta in oricalco risalente a Marco Aurelio, innumerevoli resti di frutta secca e ossa di animali domestici e selvaggi, ora all’analisi di archeobotanici e archeozoologi delle università di Roma e Lecce.

 

La maggior parte dei materiali si riferisce all’ultima fase degli spettacoli, quando erano prevalenti le cacce (i combattimenti gladiatori furono proibiti dal 438 d. C.), e vi partecipavano leoni, tigri, struzzi e leopardi, come dimostrano i ritrovamenti ossei.

In piena età imperiale lo svolgimento delle esibizioni aveva un ordine prestabilito, raccontato dal poeta Marziale, che assistette alla prima kermesse finanziata dall’imperatore Tito – durata cento giorni - negli epigrammi detti “Liber spectaculorum”.

 

La mattina era dedicata alle cacce, le “venationes”. Gli animali costretti a combattere fra loro o a offrirsi preda di cacciatori erano i più diversi; molto presenti gli orsi, reperibili sulle montagne non lontane da Roma, e belve provenienti dall’Africa e dall’Asia che suscitavano il maggiore interesse. Marziale menziona, in mezzo a tante lotte, lo scontro fra una tigre e un leone, con la vittoria della prima, tenuta in cattività a lungo e perciò più aggressiva; senza tralasciare episodi curiosi che potevano capitare, provocando ilarità. Così, ad esempio, il caso di un piccolo cinghiale, partorito dalla madre mentre essa veniva colpita a morte, che si metteva subito a correre.

 

Tutt’altro tenore all’ora di pranzo. Era a metà giornata che persone colpite da condanne capitali venivano date in pasto alle fiere (“damnatio ad bestias”) o andavano incontro a una tragica fine come protagonisti di celebri miti. L’arena diventava un palcoscenico teatrale dove si allestivano scene seguendo la descrizione degli antichi poeti: non solo alberi e cespugli come nelle cacce, ma grandi impalcature di legno, tendaggi, costumi. Davanti agli spettatori, mentre consumavano cibi portati da casa, si svolgevano le torture strazianti dei malcapitati: c’era Orfeo che cantava tra le bestie feroci, ma non le incantava; il brigante Laureolo crocifisso prima, sbranato poi; Pasifae, la moglie del re cretese Minosse che si era accoppiata con un toro. «Tutto ciò che la Fama canta, l’arena te lo offre», commenta Marziale. Le vittime erano criminali, ma c’era un voyeurismo sadico che niente aveva a che fare con la catarsi delle tragedie greche; la compassione era assente, Seneca è fra i rari autori antichi che mostra orrore di fronte a tali crudeltà.

 

Durante le ore pomeridiane si svolgeva il clou del programma: le lotte gladiatorie (“munera”) fra mirmilloni, reziari, traci, distinti dal tipo di armatura indossata. Molte volte si esibivano diverse coppie contemporaneamente, e si può immaginare quanta acqua fosse necessaria per eliminare il sangue sparso a terra, dopo aver più volte rastrellato la sabbia sporca. Quello che avevano di fronte gli schiavi addetti alle pulizie durante gli intervalli della giornata erano scene davvero splatter.

 

L’imperatore Tito era appassionato di giochi gladiatori; non sappiamo se il fratello Domiziano fosse altrettanto entusiasta; sapeva però come procurarsi il consenso dei romani. È il poeta Papinio Stazio nelle “Silvae” a raccontare la festa celebrata in un dicembre del regno di questo imperatore (81-96 d.C.): dall’alba alla notte seguente.

Fu un susseguirsi di sorprese: da cordicelle sospese calavano come grandine sugli spettatori dolciumi e frutta secca; sull’arena, giusto per alleggerire la digestione, si esibivano ballerine del ventre e nani, che suscitavano comicità per la goffaggine nel maneggiare armi; all’ora della cena, nel pomeriggio, ecco arrivare giovinetti ben abbigliati che distribuivano a tutti i presenti pane, vino, una pietanza e un tovagliolo. All’improvviso, per diradare il buio, un gigantesco anello di fiaccole comparve al centro dell’Anfiteatro mentre un’altra pioggia di cibarie scese sulla cavea; stavolta si trattava di fenicotteri, fagiani e gru arrostiti.

 

Quando sarà completato il piano dell’arena gli spettacoli allieteranno diversamente gli spettatori, mentre ulteriori interventi ci faranno leggere il monumento nelle varie fasi della sua esistenza, compresi i cantieri edilizi utilizzati. Si inseriscono nel vasto programma di innovazioni e restauri previsti entro il 2025 da Alfonsina Russo, direttore del Parco archeologico del Colosseo, come il piano di rilievo tridimensionale digitale integrato, già avviato, che consentirà un riferimento esaustivo per qualsiasi attività di studio e manutenzione.

 

«Le prossime indagini», spiega l’archeologa Federica Rinaldi, responsabile dell’Anfiteatro, «riguardano lo scavo dei due ambulacri mancanti del Colosseo, tra gli speroni Stern e Valadier sul lato sud, crollati in antico e poi demoliti. Gli interventi saranno così in grado di restituire alla fruizione un settore del monumento percepito erroneamente come spazio esterno».

 

Molto atteso è il restauro del cosiddetto Passaggio di Commodo, la galleria di circa 250 metri che consentiva agli imperatori di arrivare al loro palco lontani dalla folla. «È decorato con stucchi colorati e marmi», continua Rinaldi, «e grazie anche ai fondi del Pnrr, lo renderemo accessibile a tutti». Era da qui che entrava nel Colosseo l’imperatore del film “Il gladiatore”, che dà il nome alla galleria. Si atteggiava a novello Ercole e amava esibirsi sull’arena, senza ritegno, in cacce e combattimenti.