Il 7 gennaio del 2015 l’attacco terroristico alla rivista satirica francese costato la vita a dodici persone. La testimonianza del direttore Laurent “Riss” Sourrisseau che vive sotto scorta permanente: «Fare un giornale libero è la cosa più importante»

Non esistono parole «per disegnare il ritratto dell’abisso»: lo scrive nel suo libro “Une minute quarante-neuf secondes” (edizioni Actes Sud), il disegnatore Laurent Sourisseau, detto Riss, 55 anni, direttore di Charlie Hebdo al fianco di Charb dal 2009, e dal 2015 rimasto solo al timone. L’abisso è il 7 gennaio di sette anni fa quando a Parigi, in rue Nicolas-Appert, in appunto un minuto e quarantanove secondi, i fratelli jihadisti Cherif e Said Kouachi hanno assaltato armati la redazione del giornale satirico uccidendo dodici persone tra cui il direttore del settimanale, Stéphane Charbonnier, detto Charb, e i vignettisti Cabu, Tignous, Philippe Honoré e Georges Wolinski.

A questo abisso è seguito per Riss il tentativo di una fuga, da Parigi il mese dell’anniversario, - «gennaio sarà per sempre freddo e grigio» -, dalla solitudine, dalla follia e «da un silenzio che vuole ancora uccidere», come si legge nel suo libro pubblicato quattro anni dopo l’attentato, istanti che ha vissuto gettandosi a terra, faccia in giù, per i quali «servirebbe fabbricare parole nuove».

 

Da quel giorno Riss convive con la sua memoria, che tiene lontano da rumore, deposizione di fiori e compassione, con una scorta permanente e con il braccio destro rimasto ferito da una pallottola, fa ancora male ma questo non gli impedisce di disegnare.

 

È con questa eredità, e caparbietà, che porta avanti Charlie Hebdo.

Sono riflessioni coraggiose, audaci e candide, quelle che il direttore del settimanale satirico condivide con L’Espresso, perché «la verità è senza pietà» dice, senza scivolare mai nell’indulgenza del vittimismo, consapevole che la violenza è ancora presente. «L’abbiamo incassata. L’abbiamo assorbita», continua, «è dentro di noi».

 

Il 7 gennaio del 2015 per la prima volta in Francia, in un paese democratico, un giornale è stato attaccato, un fatto inedito, con conseguenze «colossali» che si sono comprese solo con il tempo: «È stato un crimine, un’esecuzione politica per la pubblicazione di caricature di Maometto del 2006», spiega Riss, «con l’obiettivo di eliminare personalità precise, per impedire loro di diffondere con i loro disegni e testi, le loro idee, convinzioni. Sono purtroppo serviti altri attentati per far capire alla società civile e alla classa politica la portata e il significato dell’attacco a Charlie Hebdo». A far aprire gli occhi è stata la decapitazione il 16 ottobre del 2020 di Samuel Paty, professore di Storia, Geografia ed Educazione civica, all’uscita di scuola a Conflans-Sainte Honorine, non lontano da Parigi: «In quel momento è stato chiaro che i terroristi non volevano colpire solo la libertà di stampa e le manifestazioni culturali, ma anche l’educazione attraverso la scuola. In Europa prima eravamo convinti che l’intolleranza religiosa non esistesse più, ma non è così. Bisogna porsi delle domande, l’espressione religiosa deve avere dei limiti nella vita pubblica» spiega Riss che ricorda come nel 2007 il processo per le caricature di Maometto, quelle del quotidiano danese Jyllands-Posten che Charlie Hebdo aveva ripubblicato e il disegno firmato da Cabu, si era chiuso con un’assoluzione piena dall’accusa di «ingiuria pubblica» verso i musulmani.

 

A salvare Charlie Hebdo, la cui sede era stata attaccata già nel 2011 con una bomba molotov, dal disegno di morte dei fratelli Kouachi è stato lo stesso Charlie Hebdo: nel momento più buio è arrivato in soccorso l’umorismo, che «non fugge la tragedia della vita ma, al contrario, se ne appropria, per renderla sopportabile», dice Riss. A una settimana dall’attacco il giornale è tornato in edicola, «tutto è perdonato» recitava la copertina con Maometto che versava una lacrima tenendo in mano un cartello con la scritta «Je suis Charlie».

 

«Abbiamo fatto un numero speciale», continua a raccontare il direttore, «perché era importante reagire subito, mostrare che eravamo ancora vivi, se non avessimo fatto nulla avremmo dato l’impressione di essere spariti, invece dovevamo rispondere. Ma non eravamo in grado da subito, moralmente e psicologicamente, di garantire un’uscita settimanale, per questo ci siamo presi un po’ di tempo».

 

Riss ha cominciato a lavorare nel 1991 per il settimanale satirico francese La Grosse Bertha dove ha incontrato Charb, Luz, Cabu e tutta la redazione del futuro Charlie Hebdo che, uscito in edicola per la prima volta nel 1970, ha ripreso le pubblicazioni nel 1992.

 

Il giornale, con loro, aveva perso la sua anima: «È stato difficile mettere in piedi una nuova redazione, disegnare per Charlie Hebdo non è come farlo per altri giornali, c’è un umorismo, uno spirito particolare. Abbiamo dovuto formare altre persone. Anche io, Luz e Charb agli inizi abbiamo dovuto imparare e non è successo da un giorno all’altro. Ero convinto che valesse la pena provare. Dopo l’attacco abbiamo dovuto diventare di nuovo attivisti, militanti per la nostra libertà, per difendere diritti che sembravano acquisiti e invece non lo sono».

 

Charlie Hebdo si è dovuto confrontare con la paura: «Molti giornalisti hanno avuto paura di unirsi a noi, alcuni hanno dovuto rinunciare perché le famiglie non volevano. La paura vista da fuori è diversa da come la viviamo noi, ma è comprensibile perché essere sotto protezione 24 ore su 24 è molto pesante. Alla fine siamo riusciti a trovare nuovi collaboratori perché la libertà di espressione è totale, ed è una cosa rara. Charlie Hebdo è indipendente, non funziona come gli altri giornali, non ha pubblicità, noi rispondiamo e dipendiamo solamente dai nostri lettori».

 

Dopo l’attentato, ci sono state grandi manifestazioni di solidarietà e sostegno ma anche accuse che pesano ancora: «Siamo stati accusati di razzismo, una delle accuse più offensive per Charlie Hebdo, di essere noi responsabili di quello che era successo, alcuni hanno strumentalizzato l’accaduto per tentare di marginalizzarci ancora di più. Charlie Hebdo è diventato presto il simbolo della libertà di espressione e ci siamo dovuti quasi scusare per questo. Le settimane successive abbiamo lasciato che si dicesse qualunque cosa perché non eravamo in grado di reagire, eravamo vulnerabili. Solo dopo abbiamo ritrovato la forza di farci rispettare».

 

Riss insiste con la necessità di essere definiti «innocenti», perché nella parola «vittima» si includono spesso anche i carnefici: «Tutti oggi sono vittime di qualcosa, anche gli assassini possono essere definiti “vittime della società”, questo è stato detto dei fratelli Kouachi e così ci siamo ritrovati accanto a chi ci aveva attaccato, quando invece bisogna definire le responsabilità. “Innocente” è un termine intransigente. Questa parola taglia le gambe all’accusa, malvagia e feroce, di colpevolezza che alcuni ci hanno rivolto dopo l’attentato e che doveva essere contestata perché andava al di là di noi, un ragionamento del genere è pericoloso per la libertà di stampa. I fratelli Kouachi sono colpevoli e noi siamo innocenti, com’è stato stabilito nel processo per l’attentato».

 

La satira tocca temi tabù, fondamentali, filosofici, che possono urtare le convinzioni profonde, destabilizzare, far riflettere e far vedere le cose da un altro punto di vista: «Non cerchiamo di piacere, ma di fare uscire le persone dalla propria zona di comfort intellettuale, che è la cosa peggiore per me» spiega Riss che si scaglia continuamente contro quelli che definisce i «collabos». «Sono intellettuali, professori universitari, persone colte ma senza coraggio, che si adattano, dicono cose convenute, non usano la conoscenza per denunciare, per far discorsi critici, efficaci, sovversivi, che è quello che ci si aspetterebbe da loro. Questo è un tradimento, uno spreco, la loro erudizione è timorosa, fine a se stessa, si autocompiacciono della posizione che occupano», continua Riss che «preferisce», come scrive anche nel suo libro, «i perdenti coraggiosi ai furbi collaborazionisti».

 

Per difendere la libertà di stampa, Riss è costretto a grandi limitazioni: «Sono libero», spiega, «perché nessuno mi impedisce di cambiare vita. È una negoziazione con la libertà e la sua privazione. Fare un giornale libero è più importante della mia libertà di movimento».

 

Charlie Hebdo ha oggi una responsabilità diversa: «Il giornale satirico ha ritrovato qualcosa della sua identità storica, cerchiamo di mantenere la curiosità che abbiamo sempre avuto e di avere un punto di vista originale, consapevoli che quello che diciamo e disegniamo ha molta più visibilità, anche all’estero. Dobbiamo usare la libertà in modo ancora più intelligente e difendibile. I lettori contano su di noi».

 

E la memoria che peso, che posto ha? «I nuovi collaboratori non portano il peso di quel 7 gennaio, il ricordo di quelli che sono stati uccisi, per questo sono a volte più a loro agio, a volte meno perché si chiedono se sono all’altezza di quello che è stato fatto prima. Io mi chiedo sempre che cosa avrebbero pensato le persone scomparse del giornale che facciamo oggi, se è degno, se ne sarebbero contenti. Immagino dei dialoghi immaginari con loro, abbiamo lavorato insieme per ventiquattro anni, conosco bene il loro pensiero, mi pongo sempre la domanda per capire se stiamo andando nella direzione giusta. Siamo circondati dalle loro vignette e le ripubblichiamo regolarmente. Non se ne sono mai andati, sono sempre intorno a noi».