“Oggi c’è chi pensa a l’unità dei muri ottusi, delle barriere discriminatorie, delle preclusioni risentite. Ma l’Italia dei ventenni si è lasciata alle spalle questi vecchi spettri. E chiede oggi apertura”. La lettera dallo speciale dell’Espresso

Che cosa chiedere al futuro Presidente della Repubblica in questi tempi bui, nei quali la pandemia, deformando le nostre vite, talvolta perfino obnubilando le coscienze, ha chiuso nel cielo su di noi anche l’ultimo squarcio di speranza?

 

Le richieste si affastellano e si rischia di scambiare il presidente per il capo del governo avallando quel presidenzialismo che sembra fare capolino ovunque. Se si guarda, dunque, ai compiti attribuiti a questa carica, vale la pena soffermarsi anzitutto sulla garanzia dell’unità nazionale.

 

Che cosa può voler dire oggi? L’Italia non è più quella di vent’anni fa, e se il sud resta emarginato dall’agenda politica, è pur vero che le spinte centrifughe, quelle, ad esempio, del vecchio leghismo, restano un brutto ricordo del passato. L’unità dei confini non sembra davvero più messa in discussione. Semmai il problema è un certo modo di intendere, o meglio, di fraintendere l’unità, irrigidita e pietrificata – l’unità dei muri ottusi, delle barriere discriminatorie, delle preclusioni risentite. Ecco che l’aggettivo «nazionale» diventa in tale contesto un pericolo, il pretesto per una deriva. La parola «nazione» è connessa con «nascita», implica legami di sangue e di suolo. Appartieni perché sei di qui, da genitori nati qui, per via di una discendenza pura. L’Italia dei ventenni, che saranno presto i protagonisti dell’era postpandemica, si è lasciata alle spalle questi vecchi spettri. E chiede oggi apertura.

 

Che il futuro Presidente della Repubblica sia dunque garante dell’apertura dell’Italia. E in nessun modo ostacoli il processo avviato in questi ultimi due anni. Perché la pandemia, forse qui più che altrove, ha mostrato i danni irreparabili di un paese chiuso e ripiegato su di sé. Apertura vuol dire anzitutto un’Italia europea, senza mai più esitazioni; ma significa anche un’Europa italiana. Molti passi sono stati compiuti in questa direzione negli ultimi mesi. Non si può tornare indietro.

 

Diciamolo pure: c’è un modello italiano di cooperazione, solidarietà, umanità, che deve essere esportato. E il futuro Presidente può insieme rappresentarlo e farsene garante. Ne ha bisogno questo mondo lacerato e messo a dura prova dalla pandemia. L’apertura non è degli ingenui, di quelli che non colgono i calcoli cinici della geopolitica – al contrario, è di quelli che guardano oculatamente oltre questi calcoli. Tradotta all’interno “apertura” diventa sinonimo insieme di cura e di resistenza.

 

Chi ama il luogo in cui abita, si apre al paesaggio, ne riscopre i pregi, se ne prende cura. Insieme agli altri – non contro. E questo vale tanto più per il patrimonio artistico. Gli italiani si sono sempre raccolti intorno a questa eredità, più che intorno a un’istituzione. L’unità non può essere quella imposta artificiosamente dalla paura. È invece quella della Resistenza, di chi – come sanno bene i partigiani – sa creare una difesa che unisce forze, esperienze, idee diverse.