Una guerra costata decine di migliaia di morti. Centinaia di miliardi sprecati in azioni militari e nella ricostruzione. E dopo le scene dall’aeroporto, il nulla

Poche settimane dopo la presa di Kabul, a voli di evacuazione terminati, il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid, improvvisando una conferenza stampa dalle piste dell’aeroporto della capitale disse: «Questa vittoria appartiene a tutti noi, a tutto l’Afghanistan».

Poi, per celebrare la partenza delle ultime truppe occidentali, ha attraversato la passerella della pista settentrionale coi combattenti dell’unità d’élite Badri alla guida dei veicoli lasciati indietro dagli americani e, di nuovo a favore di telecamera, ha detto: «La vittoria si deve a 20 anni di sacrifici da parte dei mujaheddin e dei loro leader. Questa vittoria è una grande lezione per gli altri invasori e per la nostra generazione futura. È una lezione per il mondo».

Sono trascorsi quattro mesi da quel momento e in quel breve discorso, nella celebrazione di vittoria, ostentata dai talebani all’aeroporto Hamid Karzai di Kabul, c’erano già tutte le parole per ripensare vent’anni di intervento militare, e gli indizi che avrebbero dovuto far domandare all’occidente cosa, di una guerra persa, non avesse capito: sacrifici dei mujaheddin, invasori, generazione futura.

La lezione per il mondo che il mondo, però, stenta ad imparare.

 

Sulle cifre di due decenni di guerra molto è stato detto: 145 miliardi di dollari spesi dai governi americani nel tentativo di ricostruire il Paese, le sue forze di sicurezza, le istituzioni del governo civile, l’economia e la società civile, 840 miliardi di dollari spesi dal Dipartimento della Difesa in azioni militari, 3.700 soldati occidentali uccisi, 21 mila soldati americani feriti. E gli afghani, che hanno pagato il prezzo più alto. 66 mila soldati morti, 50 mila civili uccisi, 75 mila feriti.

 

 

Queste ultime cifre, non è difficile immaginarlo, sono largamente sottostimate.

Se chiudiamo gli occhi provando a ricordare l’istantanea che tratteniamo nella memoria della fine della guerra afghana, probabilmente ci ritroveremo a condividere un’immagine in molti: migliaia di persone riversate nell’aeroporto nel tentativo di imbarcarsi sui voli internazionali per fuggire dal Paese, il filo spinato che separava i civili dai militari rimasti a presidiare lo scalo, le madri che consegnavano bambini, neonati, nelle mani dei marines, uomini che corrono mentre gli aerei rullano sulla pista, uomini aggrappati alle scalette dei mezzi dell’US Force, giovani saliti sui portelli del carrello di atterraggio, altri aggrappati alla fusoliera in un atto di disperata speranza di arrivare altrove, ovunque stesse andando l’aereo, purché non lì. Qualsiasi posto considerato più sicuro di un Afghanistan che tornava indietro di trent’anni. Ovunque pur di non essere lasciati indietro.

E poi, ricordando quei giorni, probabilmente rievocheremo l’immagine emblematica, sciaguratamente abituale nelle tragedie contemporanee: i corpi che precipitano dal C-17 Globemaster III statunitense che decolla dall’aeroporto di Kabul. Rivedremo al rallentatore il C-17 che prende velocità, gli uomini che lo inseguono, l’aereo che si alza, e due uomini che erano saliti forse sul carrello di atterraggio, forse sulla sua ala, che cadono.

The falling man, si sono affrettati a titolare i quotidiani americani, passati in due decenni dal falling man delle Torri gemelle a quello di Kabul. La genesi e la fine della guerra.

Una fotografia, un cerchio rosso disegnato intorno ai corpi che precipitano e marcano l’inizio della distanza dagli eventi.

Come se le due immagini: la figura delle sagome nel vuoto dei cieli afghani e la vittima di al qaeda che a Manhattan si lancia da una torre in fiamme, congiungessero gli eventi e, insieme segnassero una linea ideale a unire i puntini della storia, condensandone il significato.

 

 

È da lì che tutto è partito. È così che tutto finisce. Coi corpi nel vuoto.

Se chiudiamo gli occhi, dicevo, quella sarà probabilmente la prima immagine che la memoria recupera delle ore più mediatizzate della caduta di Kabul. Da lì in poi un lento declino dell’attenzione.

Chi erano quegli uomini circondati da un cerchio rosso sulle prime pagine dei nostri giornali? Da cosa stavano scappando?

Bbc Persian alla fine di agosto ha ricostruito la biografia di uno di loro: si chiamava Zaki Anwari, era cresciuto nel quartiere di Kohte Sanghi, nel distretto di Kabul6, area densamente popolata, abitata dalla classe media. Il padre aveva lavorato duramente per garantire a tutti, ai quattro figli maschi e alle tre femmine, un’istruzione. Zaki amava giocare a calcio, aveva la maglia rossa della squadra nazionale giovanile afgana. Zaki aveva 17 anni. Era nato dopo il 2001, per lui il primo emirato islamico era un ricordo orribile riportato dai familiari. Zaki non aveva mai mostrato insofferenza, mai mostrato desiderio di ottenere un visto per lasciare Kabul, mai condiviso l’aspettativa di un futuro altrove. E poi un cerchio rosso intorno a una sagoma nel vuoto, Zaki che precipita da un veicolo militare americano e quella sagoma che si unisce al mosaico di altre immagini che la nostra memoria accumula delle tragedie contemporanee, così distanti ma così, illusoriamente prossime. Il corpo che precipita accatastato sul corpo di Aylan Kurdi sulla spiaggia turca, su quelli dei migranti dietro le sbarre dei centri di detenzione libici, degli abitanti di Mosul che precipitano dai tetti lanciati dalla furia dell’Isis, dei giornalisti occidentali decapitati in Siria, i corpi gonfi d’acqua delle vittime del Mediterraneo. E così via.

 

 

Nel 2003 Susan Sontag ha scritto “Davanti al dolore degli altri”, il suo secondo libro sulla fotografia, mettendo in guardia noi che osserviamo. I mezzi di informazione amano i disastri, ci ricorda Sontag, gongolano nell’orrore e operano secondo il principio che «se sanguina, funziona».

Mentre scrive, le Torri gemelle non si sono già più, eravamo già stati spettatori di quell’orrore e delle sagome nel vuoto, avevamo già sistemato quell’immagine da qualche parte, nello scaffale della memoria: «Anche una catastrofe di cui si ha esperienza diretta finisce spesso per sembrare simile alla sua rappresentazione. L’attentato al World trade center dell’undici settembre 2001 è stato descritto come “irreale”, “surreale”, “simile a un film”, in molte delle testimonianze fornite da chi ha osservato da vicino cosa stava accadendo», scrive Sontag. Una catastrofe finisce per sembrare simile alla sua rappresentazione, così chi guarda, lo spettatore, può tenersi a distanza di sicurezza dalle vittime delle carestie, dei massacri, delle esecuzioni sommarie, della paura.

Dell’Altro che non ha capito e che continua a non capire.

Un antidoto a questo appetito per le immagini del dolore c’è, ci suggerisce Sontag. Sono le parole.

In Afghanistan, la parola era, e resta, contesto. Servono parole complesse per spiegare la fuga di Zaki e la sua caduta nel vuoto, parole complesse per spiegare i due decenni di guerra che hanno segnato il suo paese e la lezione della storia che evocava Zabihullah Mujahid sulla pista settentrionale dell’aeroporto. Le parole a spiegare i talebani vincitori di un conflitto che noi abbiamo raccontato come la liberazione dell’Occidente dalla minaccia terroristica e loro hanno raccontato come la guerra di resistenza contro gli eserciti occupanti e oppressori. Un conflitto che noi abbiamo raccontato amplificando i successi sull’emancipazione femminile, sull’istruzione, sui diritti civili, per anestetizzare la pubblica opinione dei contribuenti che pagavano le spese militari di una missione sempre più sgangherata e loro hanno raccontato come la difesa dei valori fondanti dell’identità afghana: il rispetto della religione, e un solido, radicato nazionalismo.

Noi, gli occupanti. Loro, scandalosamente, i partigiani delle leggi islamiche e di tutto l’Afghanistan.

Ricostruire l’Afghanistan avrebbe richiesto una comprensione dettagliata delle dinamiche sociali, economiche, politiche del Paese. Ma i funzionari statunitensi operavano a mosca cieca, imponendo modelli occidentali alle istituzioni economiche afghane, addestrando le forze di sicurezza con sistemi d’arma avanzati che non potevano mantenere, imponendo uno stato di diritto formale a un Paese che ha affrontato la quasi totalità delle sue controversie con mezzi informali. Volevano, volevamo, cambiare un Paese non conoscendolo, e abbiamo finito per esacerbare il conflitto e finanziare, inavvertitamente gli insorti, come più volte ammonito dagli studi di Sigar, la principale autorità di supervisione del governo degli Stati Uniti sulla ricostruzione dell’Afghanistan. Non abbiamo imparato la lezione della storia.

 

 

Nel 2015, parlando coi giornalisti, Douglas Lute, generale dell’esercito americano in Afghanistan durante le amministrazioni Bush e Obama disse: «Eravamo privi di comprensione fondamentale dell’Afghanistan. Non sapevamo cosa stavamo facendo».

Non sapevano cosa stavano facendo, i militari americani, non capivamo cosa stavamo vedendo, noi, gli spettatori, di fronte al quaranta per cento delle donne afghane in Parlamento a Kabul, e alle scuole aperte per le ragazze nei centri urbani, alle squadre di calcio femminile, e alle università nei cui corridoi camminavano giovani che ci sembravano sempre più simili a noi.

È consistito in questo il nostro errore principale. Nell’illuderci che quelle immagini corrispondessero alla realtà e non alla sua rappresentazione semplificata. Illuderci di aver trasformato velocemente un Paese e le sue tradizioni, raccontando la guerra ai (tele)spettatori come un esperimento di modernizzazione in vitro che raccoglieva solo successi. La verità è che mentre il pubblico occidentale si illudeva, i militari che «non sapevano cosa stavano facendo», restavano sempre più chiusi nelle basi militari, e i talebani moltiplicavano gli sforzi e, per paradosso, il consenso.

Noi vedevamo qualche chilometro quadrato di modernità, loro conquistavano il Paese strada dopo strada, villaggio dopo villaggio. Città dopo città.

Anche Zaki Anwari aveva vissuto i suoi 17 anni di calcio e modernità nel distretto 6 di Kabul, finché in piena estate i talebani sono entrati in città senza sparare un colpo, e migliaia di persone hanno cominciato a correre in direzione dell’aeroporto chiedendo di essere salvati. Salvati da chi era entrato nel Paese vent’anni prima per salvarlo dall’oscurantismo, era rimasto per sperimentare la propria idea di democrazia in un Paese rimasto ignoto, e se ne andava, vent’anni dopo, assai poco dignitosamente, fuggendo da sconfitto. Lasciando indietro i liberi a metà. Tutti quelli che, come Zaki Anwari, avevano assaggiato la libertà, i diritti, per poi vedersi portar via il piatto dalla tavola.

È lì che abbiamo interrotto la nostra memoria, e il nostro interesse per l’Afghanistan, nel 2021.

Sulla soglia in cui abbiamo smesso di riconoscere i protagonisti delle immagini come persone prossime. Finché ci somigliavano, eravamo attenti, coinvolti. Partecipavamo a quello strazio collettivo. L’evacuazione è stato il nostro – occidentale – punto di rottura. Espiazione del senso di colpa dell’occupante: se non possiamo cambiarli, portiamoli via. Ma solo quelli che abbiamo reso uguali a noi.

Sugli altri, piano piano, cali l’oblio. E così è stato.