L’incontro con l’Altro, l’esplosione della passione, la nudità. E il divieto di rappresentare la figura umana nella cultura islamica. Un giro al museo dedicato al celebre pittore dà il via al nuovo libro dello scrittore algerino

Cosa rivela l’erotismo dei quadri di Picasso? Lo racconta l’intellettuale algerino Kamel Daoud nel nuovo romanzo “Il pittore che divora le donne”, edito da La nave di Teseo e tradotto da Cettina Caliò. È l’esperienza di una notte al museo Picasso di Parigi, un viaggio attraverso le opere della mostra “Picasso 1932: anno erotico”. Quell’anno il pittore spagnolo si invaghisce della giovanissima Marie-Thérèse Walter, che ne diviene la musa, l’amante, l’ossessione. Kamel Daoud ha tenuto per quindici anni la rubrica più letta d’Algeria su Il quotidiano di Orano. I suoi articoli sono stati ripresi dalla stampa internazionale e tiene una rubrica per il magazine francese Le Point. Con uno stile tagliente e impegnato, critica l’islam politico e la decadenza del regime algerino, coglie la speranza suscitata dalle primavere arabe, difende la causa delle donne. Il suo primo romanzo “Il caso Meursault” (Bompiani) ha ricevuto il premio Goncourt. È diventato un caso internazionale il suo editoriale per La Repubblica sugli eventi di Colonia, in Germania, le violenze sessuali commesse da alcuni rifugiati per lo più magrebini nei confronti di alcune donne la sera di Capodanno del 2016. Daoud ha denunciato l'islamismo come causa principale di un «rapporto malato con le donne, il corpo e il desiderio» nel mondo arabo.

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Nel nuovo romanzo lei riprende la vicenda di Robinson Crusoe e di Venerdì, come già ne “Il caso Meursault”. È la sua pietra di paragone dell'incontro tra il mondo arabo e quello occidentale sul tema dell'erotismo e dell'immagine. Perché è così affascinato da questa storia?
«Perché è un mito, quando ero bambino questo racconto mi faceva paura, ma nello stesso tempo era entusiasmante. Il libro di Daniel Defoe ha avuto successo perché tocca qualcosa in noi che è universale. Quando incontriamo qualcuno che è diverso, come ci comportiamo? L’incontro con qualcun altro è tutto quello che possiamo vivere come grande avventura, non vediamo mai gli dei, gli angeli, o i diavoli. Il rapporto con l’altro è sempre un rapporto di desiderio o di rifiuto del desiderio. Venerdì è un mito che pone ogni volta le buone domande. Si può vivere soli? Cosa fare quando l’altro è totalmente diverso da noi? Bisogna ucciderlo? Convertirlo? Amarlo? Desiderarlo? Separarsene? Sono domande che si impongono per l’amore, per la guerra, la migrazione, per il rapporto con il Sud, il rapporto di coppia, per la memoria. Oggi si dice spesso: che cosa fare del colonizzato? Bisogna accettarlo ma a casa sua? Lasciarlo venire? Ucciderlo? Sradicarlo come negli Stati Uniti? Metterlo nei campi come in Australia? Bisogna restituirgli il suo Paese? La questione si pone anche in senso opposto, ovvero cosa noi, figli dei decolonizzati, facciamo con i bianchi, gli occidentali. Andiamo ad abitare da loro? Li uccidiamo in nome di un Califfato o della giustizia? Sposiamo un occidentale perché l’amore va al di là della nazionalità? Continuiamo ad abbronzarci sulla Costa del Sol guardando le imbarcazioni di migranti affondare dicendoci che non è colpa nostra? Siamo sempre di fronte all’Altro. Per questo, ogni volta recupero sempre un piccolo pezzo di questo mito».

 

 

Ciò che colpisce di più nel suo romanzo è la capacità di cogliere i tratti erotici delle immagini di Picasso, grazie a una lettura nuova, un linguaggio che parla di caccia, sangue, cannibalismo, smembramento. È così che lei vede l'Occidente in relazione alla cultura musulmana?
«Non penso che questa sia una caratteristica specifica della società occidentale. Penso che ogni civiltà assimili, divori, ogni civiltà finisce per costruire musei, attraverso appropriazioni o furti, riciclando un po’ il resto del mondo. La grande trovata di Picasso è stata la scoperta delle maschere africane, siamo quindi sempre nell’assimilazione. Lui stesso ha divorato altre cose, quando parlo di divorare alludo alla metafora del cannibalismo, non so se esista in italiano, ma in francese, in arabo esiste l’espressione “divorare con gli occhi”, quando si ama qualcuno lo si assimila. Penso sia una metafora universale, divorare è amare, in un certo senso».

 

Come le è venuta l’idea di esplorare il museo Picasso?
«L’esperienza mi è stata proposta dalla mia editrice. Dovevo scegliere cosa fare: o prepararmi per mesi leggendo tutto su Picasso, oppure sbarcare sul posto e raccontare le cose come le vivevo, senza tesi. Ho scelto di fare così. Come per Picasso, i geni sono sempre dei barbari, all’origine del genio c’è sempre uno sguardo di violazione. Ho deciso di guardare come sentivo, ma non avevo informazioni su Picasso. Poi dovevo scrivere un libro e questo vi obbliga ad avere uno sguardo più o meno artificiale, non è uno sguardo molto libero. Io sono nato in una civiltà in cui l’immagine è vietata dalla religione da sempre. L’arte visiva araba, se esiste, è un’arte esiliata, sta altrove, in Italia, Francia, Inghilterra. Qui non è un’arte tollerata. Quando gli islamisti vogliono cominciare a prendere il potere distruggono i quadri, le statue. È una realtà che ho vissuto in Algeria durante la guerra civile, tutto quello che è pittorico è rigettato perché disegnare, scolpire è il mestiere di Dio e non possiamo imitare Dio. Quando sono arrivato al museo mi sono detto “non ho nessuna conoscenza, sarà un fiasco”. Ho fatto un primo giro alle nove di sera, ero solo, poi ho fatto un secondo giro cercando di dare un senso, non ha funzionato».

 

Poi cosa è successo?
«Al terzo giro, verso mezzanotte, è successo qualcosa. Penso che lo spirito umano fabbrichi del senso, siamo noi che fabbrichiamo gli dei, nella pietra, nel legno, siamo gli artigiani degli dei. A un certo punto ho cominciato ad individuare un ordine tra i quadri, qualcosa di coerente, poi mi sono chiesto perché Picasso dipingesse la donna contorta, di profilo. E allora mi sono detto “è perché vuole dipingere una donna nell’istante stesso in cui la sta baciando”, abolendo la distanza tra lui e il corpo desiderato. L’Occidente ha disegnato il corpo sempre a distanza di qualche metro, e poi di colpo nel XX secolo qualcuno ha immaginato un corpo senza distanza. Picasso disegna la donna amata nel momento stesso in cui la bacia, la desidera. A partire da questa idea ho cominciato a leggere le opere di quell’anno di Picasso e la sua ossessione. In fondo il pittore la disegnava talmente bene che il risultato finale è un autoritratto e non più il ritratto della donna, lui ritrae il proprio desiderio, il momento in cui diviene un’unica cosa con la donna. Non sono un critico, ho deciso di interpretare le cose come le vedo».

 

A proposito, come ha vissuto il suo primo incontro con l’Occidente? L’incontro tra una cultura occidentale che manifesta l’erotismo e la cultura musulmana che lo vieta è per forza un momento di violenza?
«La mia prima volta fuori dall’Algeria è stata a Parigi a 26 anni. Sono stato colpito da due cose. La prima: le persone che si baciano in pubblico, non esiste da noi. Non ci si bacia mai al sole né in piedi nel mondo arabo. L’immagine del desiderio è un’infrazione rispetto al mio proprio universo, è una violenza, ci si può sentire aggrediti in effetti, ma per me è stato un momento tranquillo, perché l’avevo già incontrato nella letteratura. La seconda: le sculture ovunque, angeli, demoni, divinità ovunque, anche nei musei. Nella metro di Parigi ero continuamente aggredito, c’erano tantissimi cartelloni con immagini di uomini, donne, bambini, c’erano corpi dappertutto. Nella cultura musulmana il solo corpo descritto è quello dopo la morte. In quella circostanza si descrivono i corpi, con dettagli sulla pelle delle donne, sul colore dei loro capelli. Quel che è fisico è dopo la morte, mentre per l’Occidente è il contrario, ciò che è fisico è per adesso, dopo non si sa. Da qui è nata la riflessione sull’Occidente. Poi nella mia storia, mi è stato ripetuto che l’Occidente è un divoratore, un colonizzatore. Ho interpretato il museo come l’espressione della dominazione, della colonizzazione, dell’accaparramento. Il museo è l’espressione dell’arte, della raffinatezza e della dominazione. Tutto questo mi aveva colpito quando ero giovane. Avevo visitato delle chiese. Per chi viene dalla cultura musulmana la moschea è vuota, astratta, mentre nella chiesa cristiana ci sono molti corpi, disegni ovunque, presenze che vi schiacciano. Tutto questo mi ha affascinato».

 

Nei romanzi di Houellebecq i personaggi soffrono di disfunzioni sessuali o asessualità. L’Occidente è ancora capace di fare l’amore?
«Amare ha bisogno di passione, ardore, audacia, infrazione, sono cose che bisogna considerare e gestire, non voglio cadere in questo discorso che può essere pericoloso al tempo del #MeToo, mi piace essere un barbaro in amore, sinceramente, ma mi piace essere civilizzato per scriverne. Amare è qualcosa che rompe i codici. Il contrario dell’amore sono le regole, le norme che impediscono che l’amore sia possibile come atto, visione, letteratura. Se devo fare una gerarchia, penso che l’amore debba essere messo sopra le leggi. È il suo modo di rivitalizzarci, di strapparci dalla nostra quotidianità. Il comfort, che è molto occidentale, è il comfort dell’amore. Le coppie si consumano nel comfort, ci vogliono avventura, draghi, infrazioni, divieti, clandestinità, morsi, altrimenti non è più amore, ma matrimonio».

 

L’arte può guarire Abdellah, il jihadista immaginario del suo romanzo, dalla morte del suo desiderio per il mondo?
«Lo credo profondamente, per averlo vissuto. La domanda che si pone oggi nel mondo detto arabo è “chi definisce la felicità?”. È colui che definisce la felicità che può governare e avere il potere. E invece oggi la sinistra non definisce la felicità, si è impantanata nel discorso della decolonizzazione. Chi definisce la felicità? Gli islamisti, i religiosi, sono loro che definiscono la sessualità, che rappresentano il desiderio, che disegnano la donna ideale che incontreremo in paradiso, sono loro che danno senso alla vita. A partire dal momento in cui si definisce la felicità, si può proporre un’utopia e si può dunque governare, o essere candidati al potere. È per questo che gli islamisti hanno tanto potere, perché propongono un’utopia».