Violenze sistematiche da parte delle truppe aggregate durante l’avanzata degli Alleati, che consideravano il corpo delle donne come trofeo di guerra. Una pagina oscura dell’epopea della lotta al nazifascismo. Ma le "Marocchinate" sono ancora tabù

«Eravamo ficcati come li vermi sottoterra». Così racconta una testimone, descrivendo il tentativo suo e delle altre donne di sfuggire alla violenza dei “goumiers”, soldati di origine marocchina, senegalese, algerina o tunisina inquadrati nelle truppe francesi a fianco degli Alleati. Autori delle Marocchinate, migliaia di abusi nei confronti delle italiane (le stime parlano di 60 mila vittime), saccheggi, uccisioni. È il lato più buio della Liberazione, nel silenzio complice degli americani, consapevoli eppure immobili davanti allo scempio. «Un battaglione del 351° fanteria americana provò a fermarli ma il loro comandante di compagnia intervenne dichiarando che erano lì per combattere i tedeschi e non i “goumiers”», scrive lo storico Eric Morris.

 

Non è l’unica prova della connivenza. Quando i soldati americani passano per Spigno, in provincia di Latina, sentendo le urla delle donne il sottotenente Buzick risponde a un sergente: «Credo stiano facendo quello che gli italiani hanno fatto in Africa». Ripercorre questo doloroso pezzo di dopoguerra Ester Rizzo («Mi definisco orgogliosamente femminista»), autrice di un saggio, “Il labirinto delle perdute” (Navarra Editore), che è un omaggio alla memoria femminile. «Scriverlo è stato un dovere. Le donne sono sempre esistite: esploratrici, scienziate, scrittrici. Molte volte i meriti dei loro lavori sono stati attribuiti ai fratelli, ai mariti agli amanti (celebre è i il caso di Leonie D’Aunet, la prima donna ad attraversare il Circolo polare artico e autrice di un bellissimo reportage di viaggio, ma ricordata solo come l’amante di Victor Hugo, ndr). È una visione da ribaltare e non possiamo tollerare venga tramandata alle giovani generazioni». Sul perché, quasi 80 anni fa come ora, gli uomini usino lo stupro come la più aberrante forma di prevaricazione del corpo femminile, Rizzo abbozza una spiegazione: «Il corpo delle donne si considera proprietà dell’uomo, non trovo altre ragioni. E come tale può essere vandalizzato, deriso, distrutto. Per colpire magari un altro uomo, dello schieramento opposto».

 

Eppure, neanche in questo modo è possibile inquadrare le Marocchinate. Poiché vittima e carnefice sono dalla stessa parte, chi perpetra la violenza è al contempo stupratore e liberatore. Di questa pagina buia scrivono anche Simone Cristicchi e Ariele Vincenti, in un libro che si intitola “Marocchinate, l’altra faccia della Liberazione” (La nave di Teseo). Puntando lo sguardo sulle violenze avvenute nel Centro Italia: «I personaggi di queste pagine ricostruiscono una storia dimenticata, ciascuno con la sua voce e il suo carico di ricordi, in una testimonianza civile contro l’insensatezza di ogni violenza». Provocata dalla promessa, alle truppe marocchine, di godere del “diritto di preda” contro la popolazione civile in caso di conquista delle posizioni tedesche.

Cinquanta ore di libertà in cui è concesso impadronirsi di tutto: oro, case, vino, bestie, donne. I militari riescono nell’impresa e reclamano il bottino, compresi i corpi femminili. Ma lo strascico di violenze non è delimitato alla zona centrale del Paese. «Nella memoria collettiva, dice Rizzo, ci si è fermati alla “Ciociara”, al romanzo di Alberto Moravia e al film di Vittorio de Sica. Il fenomeno però è molto più esteso. Ha toccato la Toscana, la Sicilia con i luoghi di sbarco degli Alleati, alcune zone della Campania».

Molte vittime hanno poi trovato rifugio in Sicilia. Arrivate alla fine della guerra a Termini Imerese, dove sorgeva l’Istituto delle Suore di San Pietro. Nel comune in provincia di Palermo c’erano i bagni termali, un reparto ginecologico all’avanguardia e, nelle località vicine, un corpo di infermiere volontarie e un deposito di penicillina.

Ma oltre a terra di accoglienza, la Sicilia è stata anche teatro delle Marocchinate: «Subito dopo lo sbarco degli Alleati, nel luglio del 1943, i primi casi di stupro si verificarono sul tratto di costa da Licata a Gela e poi negli altri territori dell’interno, fin sui monti Nebrodi, dove le truppe avanzavano. Nicosia, Cerami, Troina, Capizzi», spiega l’autrice. Sulle coste i militari che arrivano sono 12 mila. Le testimonianze sono labili, ma un cittadino di Capizzi racconta che molti civili, compreso il capomafia, si recarono a protestare alla sede del Comando generale alleato. Senza ottenere alcun effetto. Gli uomini allora decisero di difendersi da soli, cercando alla bell’e meglio di proteggere le donne del luogo. Tanto che alla fine della guerra vennero ritrovate decine di cadaveri ammassati, appartenenti ai “goumiers” e ai soldati tedeschi. Il sangue, però, non ha lavato via il dolore delle vittime. Racconta una testimone: «Alcune vicine rimasero perché dovevano fare il pane. Subirono inaudite violenze e sono state per anni sotto cure mediche. Non si parlò più di nulla, come se niente fosse stato».

 

Gli abusi sessuali sono stati a lungo considerati “effetti o danni collaterali della guerra”. Sempre donne le vittime, o internate nei bordelli dei campi di concentramento, o violate da vincitori e vinti. Nel meccanismo perverso che rende il sesso strumento di punizione. Il fenomeno continua ancora oggi, nelle tante nazioni che hanno perpetrato lo stupro di massa («Sono una pratica abituale nelle moderne tattiche di guerra», si legge nella Convenzione di Istanbul). È successo, tra gli altri, in Afghanistan, Serbia, Kosovo, Congo. La capillarità del fenomeno ha fatto sì che negli anni la violenza sessuale sia diventata un crimine contro l’umanità, condannato nei trattati internazionali e dalle risoluzioni Onu.

D’altra parte, come si possono considerare “collaterali” atti come quelli citati nel saggio di Rizzo: «In molti casi le donne hanno subito gravi lesioni». Se non curate, le ferite del corpo diventano il marchio dell’infamia, le fitte di dolore stanno lì a ricordarlo. Alla violenza maschile contro le donne, l’autrice dedica una lunga parte del suo volume che travalica anche i confini nazionali. Straziante è quella sulle donne di Colle Urlante, una zona remota della Cina nella provincia dello Shanxi, presa dal racconto della giornalista Xue Xinran. Qui le donne sono merce, macchine per procreare a costo di un prezzo altissimo: il deterioramento del loro stesso corpo. «Quella visita gli fece apprendere una verità sconvolgente. Era affetta da prolasso uterino e lo sfregamento e l’infezione di anni avevano indurito la mucosa rendendola simile all’epidermide, ispessita come una callosità». Sembra il romanzo di Margaret Atwood, “Il racconto dell’ancella”. Con la differenza che quello è un testo distopico, Colle Urlante realtà.

«Ho notato una sorta di pudore nel raccontare degli stupri a opera degli Alleati, ma il momento è maturo per ammettere le colpe. Bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di ricordare le donne vittime, senza strumentalizzare politicamente la commemorazione», dice Rizzo. Qualcosa negli anni è stato fatto. A Castro dei Volsci per esempio, in provincia di Frosinone, dove nel 1964 su un’altura è stato eretto un monumento commemorativo, Mamma Ciociara, con una statua che raffigura una madre nell’atto di sacrificare il suo corpo per tentare di salvare la figlia. È l’automatismo della donna-madre, meritevole del ricordo solo perché martire salvando la prole.

La trascrizione, inoltre, è generica: «Il Comune e la Provincia ricordano figli e figlie che ossequienti alle patrie tradizioni affrontarono con eroismo la morte in difesa del loro onore e della loro libertà». Nonostante l’intento di non dimenticare, quella stele quasi distingue con il metro dell’onore e della rispettabilità. Come accaduto con una legge degli anni Cinquanta, secondo cui la pensione di guerra era destinata solo alle donne vittime di infermità fisica causata dalla violenza. Per ottenerla bisognava provare «la buona condotta morale» e la cifra corrisposta sarebbe cambiata se, al momento dello stupro, si era vergini o coniugate. La rappresentazione femminile, tra l’altro, è ancora uno degli specchi della disparità nella nostra società. A fronte di numerosissimi esemplari di statue maschili, secondo l’associazione “Mi riconosci?” solo 203 raffigurano donne. Spesso, come nel caso della Spigolatrice di Sapri e del complesso dedicato alle giornaliste Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli, riprodotte con corpi torniti o senza veli.

Le Marocchinate non hanno ancora trovato una collocazione precisa nella nostra memoria storica. Alcuni anni fa è stato persino fatto un remake porno de “La Ciociara”, il film che racconta le violenze subite dalle donne durante la seconda guerra mondiale. Una pornostar nei panni di Sophia Loren, la tragedia familiare ridotta a godimento volgare. «Credo ci si debba scandalizzare perché vi è chi vorrebbe coprire questa piaga, questo delitto orrendo che fu commesso contro donne inermi e giovanette, con un velo di silenzio», diceva la madre costituente e deputata comunista Maria Maddalena Rossi negli anni Cinquanta, durante una seduta parlamentare. Oltre 70 anni dopo, è tempo di mettere in pratica quelle parole.