L’intervento
Noi, confusi e sparuti nell’epoca dell’orfanezza del Covid
Il virus ha unificato il mondo intero, comanda e fa paura come un padre autoritario. E invece dobbiamo diventare padri e madri di ciò che esiste: adottandoci
Li vediamo sparuti e a gruppi confusi, fanno la spesa con una cautela eccessiva e tremano le poche foglie rugginose sugli alberi secchi. Li vediamo tremuli in qualche modo, isolati sotto gli alberi esili e neri sulle panchine al gelo e distanziati alle pensiline dei tram arancioni, li osserviamo, e non sappiamo cosa pensare, mentre attraversano, pallidi, le strade gelate e disertano il centro della metropoli e le file per i tamponi li accalcano. Il fiato in aria gela e si condensa ed è pericoloso, lo sappiamo tutte e tutti che è pericoloso: evitiamo di incappare nel fiato altrui. I baci sono rari. I piccioni sono scomparsi ovunque, tranne che nella piazza della cattedrale, solcata in obliquo da pochi turisti, vestiti secondo la moda sgargiante dell’epoca, i piumini e le k-way a colori fluo. I cinquantenni sembrano ricordare gli anni Ottanta, pensierosi se un caffè vale la pena di cercare sul telefono il certificato di vaccinazione maggiorato. Per i ragazzi tutta questa aria rarefatta e radioattiva è un evento avverso, tutto sommato trascurabile, è giusto che sia così: la loro radicalità è non considerare radicale questa cosa che è capitata: altre ne capiteranno. L’anziana rattrappita, accartocciata come carta velina che crepita avvicinandosi al fuoco, spezza nella stagnola il pane secco vicino alla fontanella verde del parco a nord, con la rete per il supermercato, un litro di latte e il cibo per gatti, e si curva sensibilmente di giorno in giorno sempre di più, verso l’acqua diaccia: ha memoria della guerra. I vecchi hanno memoria della guerra, questo è più evidente che prima. I bambini vorticano inconsapevoli e danneggiati. Incancreniti da un dolore con cui non evitano di minacciare gli altri, i negazionisti di ogni ordine e grado non smettono di sottolineare o berciare che la scienza li disturba - in realtà li pungola, fornendoli di un principio di identità, che loro chiamano: libertà.
Dio sarà pure morto, ma il virus sembra una resurrezione del vecchio cadavere. Ognuno ha paura. Della vita, dell’economia. Il delta dell’inflazione deflagrerà le spese, porterà a incremento il disagio, la disuguaglianza. Aumentano gli occupati, ma c’è poco da stare allegri: l’allegria sembra un implicito, un tempo sbagliato, un grossolano rimedio all’ansia e alla vaga isteria che spossa, sfianca, induce la stanchezza al sistema simpatico. E negli ospedali... Negli ospedali, lasciano il tempo e li guardiamo morire, si decompongono e il cielo e la terra li disperdono. Non abbiamo creduto che fosse così: ogni cosa e il suo posto, le alopecie sui crani, l’assottigliarsi, avere male, sempre un posto da vivi.
Li vediamo sparuti e confusi, quasi orfani: siamo noi.
Perché noi viviamo un’epoca di notoria orfanezza. Non noi siamo orfani: è orfana l’epoca. Dicono gli scritti sacri: «Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che ne hanno paura». Ogni tenerezza è nutrimento oppure è medicamento alla paura? Il virus sembra il genitore adottivo di questa epoca orfana: finalmente l’orfanezza avrebbe trovato una risoluzione, finalmente disponiamo di un principio unificatore, che tiene a noi fino al punto di desiderarci per sopravvivere, di entrare nel nostro corpo, nella piena intimità biologica. E fare festa. Questo genitore virale non ha genere e la sua parola è neutra. Comanda, governa. Dispone che le economie si rivoluzionino. Muove le politiche internazionali. È padre, in quanto chiunque lo teme. Ed è invisibile, il che lo rende letale, esattamente come l’ombra dei padri. Vogliamo sconfiggerlo, vogliamo ridurre a zero il suo amore eccessivo per noi, che intende penetrarci fin nelle cellule. E proprio quando abbiamo trovato il surrogato del padre, che unifica il pianeta intero, allora ci disperdiamo, molecole impazzite che cozzano a caso una contro l’altra e discordano su tutto e avvertono il rischio dell’estinzione. È contraddittoria la vita dell’orfano: quando diventerà padre o madre, sarà un genitore orfano o un orfano genitore? Un genitore che perde un figlio è orfano?
Il papa, che porta il nome del santo più prossimo alle creature animali, pochi giorni fa sedeva esposto allo sguardo di chi affolla la sala delle udienze, questa sorta di astronave in cui il popolo lo incontra un poco più da vicino, perché in fondo cerca il padre, e la madre, il calore della pelle che lo ha generato e l’ispido attrito del corpo che sfida l’ultimo nato. E diceva, il papa, parole sull’orfanezza, il microfono amplificava l’appiccichìo della sua lingua al palato, piccoli schiocchi, forse una patina da gastritico. Diceva con l’accento bleso del sudamericano che il patriarca «ha lottato con Dio per obbligarlo a dargli la benedizione». Lo diceva a chi lotta con il virus per obbligarlo a non dargli la maledizione.
Il papa, padre adottivo per eccellenza, non smette di parlare di ciò che non abbiamo scelto eppure esiste. Lo ricordiamo piegato, piagato, sotto la pioggia che riluceva sul selciato deserto e buio la sera del marzo 2020 a San Pietro, solitario, piccola sagoma fosforescente, che si carica addosso gli oneri dell’adozione e parla da solo, a chiunque.
Poiché questo è lo stato confusivo di chi non sa come essere innamorato oggi, come respirare a pieni polmoni oggi: quadri, istantanee, frammenti di ricordo, memorie vaghe, desiderio di scordare, un passato a schegge e a evanescenza, che pone domande continuamente, non smette un attimo di porre domande.
Le parole hanno preso peso, si sono ricollocate. Ricordiamo di avere visto “le bare”? Le abbiamo viste a Bergamo o ovunque? All’inizio nelle corsie del nosocomio non c’erano forse “gli angeli”? Non cantavano su tutti i balconi “siam pronti alla morte”? L’oscena denuncia delle immaginarie “ambulanze vuote” non era criminale?
La classe dirigente, impietrita, gessea, livida, tra l’attonimento e il lutto: ha rappresentato davvero il popolo, attonito e in lutto. La delega di rappresentanza era sancita dal ritrovarsi tutti insieme di fronte alla morte.
La abbiamo, la hanno scordata, la morte? Non desidereremmo forse un vaccino contro qualsiasi patologia?
La rivoluzione che non hanno fatto gli umani, poiché la ha realizzata un agente patogeno, obbliga il fratello maggiore, il quale sembra un padre diminuito, a pronunciare queste parole: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».
Qualche giorno fa è scomparso lo scrittore Vitaliano Trevisan. Il suo editore, Paolo Repetti di Stile Libero Einaudi, ricordandolo pubblicamente con parole struggenti, ha scritto: «Non ti piaceva l’umanità. Per nulla. Ma amavi le singole creature». Questa umanità che non si piace e che ha pietà e amore per le singole creature è forse la forma, transitoria e solida al contempo, con cui le sorelle e i fratelli stanno attraversando l’orfanezza dell’epoca attuale, che tante epoche assomma e profetizza. Confusamente la sta attraversando, per imparare a essere madri e padri di tutto ciò che non abbiamo scelto eppure esiste: adottandolo, adottandosi.