Viaggio nella periferia del Paese ora in mano ai talebani. La gente combatte contro miseria, fame e incertezza ma nessuno rimpiange gli stranieri. E molti hanno fiducia nei nuovi potenti

Una famiglia da Maymana, provincia di Faryab (nord dell’Afghanistan) alle 4 del mattino. Il 4x4 sovietico fatica, inerpicandosi lentamente su montagne sabbiose e attraverso guadi di fiume. «Qui non c’è più nulla. Andiamo a Teheran a lavorare», commenta Mohammad Shahab, uno dei tre fratelli sulla cinquantina, presenti insieme ad a altri 2 nipoti. Si fermano per il namaz, la preghiera. Il 4x4 arranca entrando nella provincia di Badghis. Luogo dove non esiste legge. Le persone vendono armi d’assalto al mercato e le coltivazioni di oppio si intercalano alle dolci montagne.

 

Mohammad Shahab ha con sé un termos di tè, una tazza da condividere e dei biscotti cotti da sua moglie per il viaggio. Mohammed e i suoi fratelli, in gamba, sono l’immagine di un Afghanistan in crisi d’identità. Partono per cercare lavoro, costretti come altri milioni di afghani, a cercare fortuna altrove per sopravvivere.

 

 

È la prima volta che salgo da solo su un mezzo pubblico afghano nelle provincie. Prima, durante la guerra era impensabile. Ciò mi permette di percorrere migliaia di chilometri penetrando l’animo distrutto dalla sofferenza e dalle difficoltà dell’Afghanistan ma anche capire gli effetti della guerra e dello stravolgimento epocale a circa sei mesi dall’ennesimo cambiamento politico e dalla fine del conflitto. C’è sicurezza, un concetto sconosciuto alle nuove generazioni. L’Afghanistan si apre come un libro, mostrando le sue ferite, intorpidite dal suo splendore.

 

Dopo 10 ore di macchina e solo 250 chilometri percorsi, giungo a Qala-e-Naw, Badghis. Incontro Anwari, un giornalista locale: «Con i Talebani abbiamo la pace e anche se ci sono alcuni cambiamenti, penso che le cose miglioreranno». Ha poco più di 30 anni. Sorridente, bello, affabile. Mi ospita da lui. In Afghanistan, anche se la povertà è di casa, l’ospite è sacro. Molti Talebani lo dicono: «Se vieni con la macchina foto, sei il benvenuto. Ma se vieni con le armi ti combatteremo». Sono le parole di Mawlawi Mohammed Khan, un comandante talebano della provincia di Farah, eccitato di mostrarmi il suo visore notturno e di ospitarmi in casa sua.

 

 

A Badghis si vedono i segni della povertà. La famiglia di Mohammed Issa vive con teli di plastica per sopperire al gelido inverno. Non ci sono i vetri. Un bombardamento Nato ha ferito la moglie Walida che continua a emettere lamenti, mentre i figli, per mancanza di soldi, hanno ancora le schegge della bomba conficcate nelle gambe. Un’altra donna, Durkhanei, giunta all’ospedale di Qala-e-Naw dopo un bombardamento Nato, è stata respinta perché proveniva da una zona talebana.

 

Ecco il più grande danno di 20 anni d’occupazione, la quale non ha fatto altro che ravvivare una resistenza, dividere il paese, uccidere civili e farsi disprezzare. I miliardi investiti sono serviti solo a far soffrire di più i civili, che ora possono parlare, come Haji Baraa Khan, nella provincia di Paktika: «Non ci hanno portato fiori, ma solo proiettili». Quando si parla di Nato, queste poche sillabe mettono d’accordo tutti gli afghani.

 

A Haji Baraa e suo nipote Masum Khan, la Nato ha massacrato praticamente tutta la famiglia. In qualche ora, durante un raid notturno. Proiettili sparati con precisione e cinismo, in testa a donne, bambini e giovani innocenti. Errore ingiustificabile. Civili innocenti scambiati per talebani. Ma nessun soldato sarà condannato per crimini contro l’umanità. La Nato ha licenza d’uccidere in nome dell’umanità e della democrazia. Solo in alcuni casi «Scusate, è stato un errore» è stato il massimo che il comando Nato, tramite il governo afghano, è riuscito a dire.

 

«Siamo felici che gli stranieri se ne siano andati, sono venuti solo per uccidere noi e la nostra cultura», è una frase che riecheggia. Ma oltre alle bombe e ai raid notturni, alle vittime innocenti e alla corruzione, l’occidente ha creato un assistenzialismo senza precedenti. Negli anni il paese è diventato in gran parte dipendente dagli aiuti esterni (più del 40%). Ora tutto cade a pezzi e il precariato - già presente prima - è peggiorato.

 

Da Badghis il viaggio continua arrivando a Herat. In città la crisi è palpabile: i prezzi di benzina e viveri aumentano, la moneta barcolla. I tassisti fatti di hashish si lamentano per i prezzi elevati. Chi arriva da fuori ed è senza lavoro, per sopravvivere è disposto anche a vendere figli e organi per pagare dei semplici debiti. Come a Sehshabe Bazaar, quartiere alla periferia di Herat: «30 o 40 giovani hanno venduto un rene», dice un leader tribale. Alcuni giovani mostrano le grosse cicatrici sul fianco sinistro. «Anche mia sorella e mia madre hanno dovuto farlo», commenta Mohammed Rasul, 21, che oggi non può lavorare. Di fronte c’è Farida: «Ho venduto mia figlia a un’altra famiglia per mangiare e pagare i debiti. Verranno fra qualche mese a prendersela». Di fianco la piccola vittima, Hasina, 8. Ecco l’obiettivo di Mohammed Shahab e i suoi familiari: evitare l’umiliazione.

 

 

Addentrandosi nel sud del paese, sulla strada fra Herat e Kandahar attraverso deserti, montagne da mille e una notte e villaggi pittoreschi, il contrabbando è l’occupazione principale: l’oppio è vita. Chi può coltiva ovunque, fra i ruscelli, in ogni collinetta. I contadini afghani sopravvivono raccogliendo le briciole del business mafioso miliardario di eroina. «Conosciamo gli effetti nefasti dell’eroina ma cosa possiamo farci?», esclama Mohammad Akbar un coltivatore di oppio ad Haska Meyna, provincia di Nangarhar. Un commercio che va bene a tutti, comunità internazionale in primis. I talebani, come il governo precedente, chiudono un occhio.

 

Nelle provincie, ma anche nelle città, è la fame a colpire. Migliaia di bambini muoiono di malnutrizione. Ne è l’esempio l’ospedale Mirwais di Kandahar, dove il dottor Sidiq cerca di limitare i danni: «Non è colpa dei talebani. Sono state la guerra e le difficoltà nel raggiungere gli ospedali, a creare questo scempio». E il responsabile del settore sanitario della provincia di Kandahar Musa Jan Sultani non si trattiene: «Lavoravo in questa posizione già con il governo precedente. Molte Ong gestivano gli ospedali distrettuali, anche se erano in territori controllati dai talebani. Perché, quindi, il 15 agosto hanno abbandonato le strutture? Non erano in pericolo».

 

A peggiorare le cose, i conti bancari delle persone sono congelati dagli americani. Ecco perché molti hanno cercato di fuggire ad agosto: per ragioni economiche più che per pericolo. E così le evacuazioni massive hanno privato il paese di molti giovani cervelli. «Ci sono persone veramente in pericolo» - commenta l’attivista Mahbouba Seraj - «ma non il numero che vogliono far credere i media. Bisogna dire la verità».

 

Rientrare a Kabul, infine, significa essere più vicini alla politica e ai problemi civici. Ci si scontra con i timori sulle violazioni dei diritti umani e civili da parte dei talebani. Soprattutto contro donne e giornalisti. Se si attende sempre il ritorno sui banchi delle liceali delle scuole pubbliche con l’inizio del nuovo anno scolastico, molte donne hanno ripreso a lavorare e a studiare normalmente. I giornalisti invece sono sempre bersaglio dei politici. Se prima il governo repubblicano era la prima causa di morte di giornalisti, i talebani ora li arrestano.

 

I Talebani, quindi, non sono innocenti. Hanno commesso crimini, vessazioni. La loro fama li precede. Ma i timori iniziali, esagerati, non si sono confermati. Coloro che sono stati dipinti come diavolacci, terroristi e assassini, non hanno raggiunto i livelli di follia millantati dai media internazionali. Molti dicono: «Non sono cambiati» e «non mostrano il loro vero volto». Ma tutti aspettano ancora invano questa tremenda faccia talebana che tarda a rivelarsi. «Noi vogliamo migliorare, ma ci scontriamo con le frange più conservatrici del movimento», commenta un funzionario del ministero degli Esteri talebano.

 

In sé, l’Emirato Islamico è isolato e debole. Non è riconosciuto da nessuno e non ha accesso ai fondi statali, anch’essi congelati dagli americani. Ci sono segnali promettenti ma altri che dimostrano il contrario. Alcuni di loro sono analfabeti, altri educati. Alcuni simpatici, sorridenti, curiosi, e aperti al dialogo. Altri arroganti e ottusi, quasi fanatici. Se nella provincia di Parwan (nord di Kabul) un mujahidin è stato capace di eccitarsi per pensare di avermi convertito all’islam facendomi pronunciare la kalima shahadat (senza sapere che l’ho fatto solo per levarmelo dai piedi), a Kandahar invece si ascolta la musica tecno fino alle 3 del mattino in un cortile. A Kabul, ci sono talebani che ballano musica moderna ai checkpoint mentre nella vicina provincia di Logar, chiedono di consegnare la chiavetta usb con la musica perché è “haram”. Senza contare prostituzione e vendita d’alcol. Illegale chiaramente. Non ci sono regole.

 

Ai livelli alti del governo succede la medesima cosa. Una lotta fra moderati e hard-liner. E i problemi non sono solo economici ma anche legati alla sicurezza. Lo Stato Islamico attacca, mettendo sotto pressione i Talebani, i quali innervositi, a volte passano le linee puntando facilmente il fucile addosso ai civili oppure ai giornalisti. Vivono ancora in un clima di guerra.

 

L’Afghanistan è una prigione a cielo aperto dai problemi infiniti. E molti, ora parlano di un nuovo conflitto. «Temiamo un’altra guerra», - si rattrista Seraj - «troppe volte siamo stati traditi dagli stranieri». I grandi muovono le pedine sulla scacchiera. E i civili soffrono. Quando finirà?