Nel distretto del tessile di Prato lo sfruttamento avviene alla luce del sole. Ma le lotte sindacali non si fermano

«È il segreto di Pulcinella, lo sanno tutti che qui c’è sfruttamento e tutto avviene alla luce del sole». Sarah Caudiero che insieme al collega Luca Toscano dall’autunno 2018 segue il distretto tessile e abbigliamento pratese e ha fatto il miracolo di sindacalizzare per la prima volta la manodopera migrante in aziende cinesi, lo dice mentre sono le 11 e la sede Si Cobas di Prato si riempie di ventenni, molti pakistani, con i contratti in mano. Sul muro, i passaggi della Costituzione in cui si parla di lavoro, in cinese e arabo. Vertenze dure e scioperi a oltranza: qualcuno sposta i sacchi con le coperte usate durante l’ultimo picchetto.

 

Il tessile e abbigliamento conta 6.805 stabilimenti. Secondo Confindustria Toscana Nord, in 42.000 lavorano per un export cresciuto nel secondo trimestre 2021 del +44 per cento per il tessile e del +94 per cento per abbigliamento e maglieria (categoria al 90 per cento di imprenditori cinesi). Una filiera fatta di appalti e sub appalti in cui le ditte “buone” lavorano con le “cattive” e viceversa, perché un vestito deve essere tessuto, lavato, tinto, stampato, assemblato, stirato, spedito e serve il business di tutti. Agli schiavi ci pensa l’Ispettorato del Lavoro, all’opacità invece le Procure e di recente, la Direzione distrettuale antimafia.

 

Ora c’è una nuova piramide della manodopera, trasversale al comparto e per nazionalità: i capi, gli italiani, i cinesi. Pakistani, nigeriani e senegalesi spesso richiedenti asilo. Stare in fondo alla classifica vuol dire lavorare 12X7, dodici ore tutti i giorni con buste paga di 900/1000 euro, contratti ufficiali a due ore, niente ferie o malattia, ricatto sul permesso di soggiorno. Le vertenze vinte sono numerose, nonostante chi protesta o si rivolge al sindacato talvolta venga demansionato, privato dello stipendio o licenziato. O assalito al picchetto da uomini che piombano in auto o escono dall’azienda. È successo con alcune imprese cinesi. La prima volta a novembre 2018: in un sottopassaggio due delegati sindacali sono aggrediti con bastoni, coltelli e bottiglie di vetro. Il 19 giugno 2019 ai cancelli della Gruccia Creations in dieci finiscono all’ospedale. Un mese dopo, alla Superlativa, prima due autisti tentano di forzare il presidio con i camion, poi arrivano uomini con un cric e una spranga.

 

L’ultimo episodio è rimbalzato sulle cronache nazionali: 5 feriti l’11 ottobre alla Dreamland. «Il nucleo dei picchiatori è fatto da persone che girano con le mazze, che lo fanno di lavoro. Lo vedi che lo sanno fare», dicono. C’è anche questo pronto moda tra le 64 aziende oggetto di controlli straordinari dell’operazione “Alt caporalato!” dell’Ispettorato del lavoro: 32 imprese chiuse, 250 lavoratori in nero su 570, 40 senza permesso di soggiorno. Ma si paga la multa e il giorno dopo si riapre. «Dopo i video dell’ultima aggressione ci hanno contattato i lavoratori di altre sei aziende», dice Sarah.

 

«Siamo abituati a firmare accordi sindacali con persone che arrivano all’ultimo momento, trattative con soggetti che non sappiamo chi sono ma che hanno più potere di tutti gli altri. A Prato non so se c’è qualcuno con una fabbrica intestata a se stesso», scherzano. Come alla Texprint, la terza stamperia tessile d’Europa: gli operai indicavano come il vero titolare Zhang Sang Yu, dipendente che trattava ai tavoli a rappresentare l’azienda. A gennaio le denunce di 18 operai. Otto mesi di sciopero: in fabbrica sono anche videosorvegliati. Il 16 giugno scorso tre lavoratori vengono aggrediti da un commando di quindici uomini: Zhang Sang Yu viene ripreso mentre prende a pugni uno di loro. Ha buoni rapporti con le istituzioni pratesi, è considerato un uomo di successo: è socio di una immobiliare e dei colossi internazionali della distribuzione EuroIngro s.r.l e di B2B EuroIngro s.r.l. Nel 2020 era finito ai domiciliari per l’inchiesta della Dda di Milano “Habanero” e rinviato a giudizio per riciclaggio.

 

Sarebbe stato un elemento di spicco di un «sistema affaristico Cina-Italia, che aveva per perno due soggetti legati, se non facenti parte, del clan di ’ndrangheta di San Mauro Marchesato retto da Angelo Greco», questi riconducibile a sua volta a Nicolino Grande Aracri. Lo si legge nell’interdittiva antimafia che la prefettura di Prato il 9 marzo emette contro la Texprint. Indicato col nome di “Valerio”, avrebbe riciclato più volte denaro usando le fatture false emesse dalle società dei due complici coprendole con operazioni nel settore dell’acciaio in Cina, in cambio di una provvigione. Al processo con rito abbreviato il 29 marzo viene assolto e per chi ne era accusato, cade l’aggravante mafiosa. Dopo un ricorso al Tar e poi al Consiglio di Stato, che avevano confermato la validità dell’interdittiva, la prefettura di Prato accoglie la richiesta di revoca da parte dell’azienda sulla base delle motivazioni della sentenza: «Non sono emersi elementi idonei a individuarlo come il soggetto di nazionalità cinese che intratteneva illecite operazioni economico-finanziarie». L’Ispettorato intanto non ha ancora redatto il verbale finale sulla Texprint. «C’è sempre l’idea della confezione, del cinese che non rispetta le regole, lo sgabuzzino, le macchine da cucire, ma qui siamo su tutto un altro piano ed è pesantemente integrato col territorio», commentano al Si Cobas.

 

Come nell’inchiesta a giugno “TEX Majhong”, diretta dal procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo e coordinata dal sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia Leopoldo De Gregorio: 34 italiani e cinesi indagati e una filiera di smaltimento illegale di 10 mila tonnellate di rifiuti speciali raccolti “porta a porta” con autorizzazioni fittizie presso pronto moda e  aziende tessili, destinati a Marche, Nord Italia, Spagna, e stoccati in capannoni riempiti fino al tetto.

 

C’è invece l’imposizione con la forza delle aziende pratesi “del boss” nell’autotrasporto in tutta Europa al centro dell’inchiesta “China Truck”: 38 rinvii a giudizio per 416 bis su 79 imputati al processo che inizierà il 16 febbraio: la “mafia cinese” per la prima volta alla sbarra. È il coronamento del lavoro della Dia di Firenze e della squadra mobile di Prato, partite dall’omicidio nel 2010 a colpi di machete di due giovani cinesi in un ristorante, che nel 2018 aveva portato all’arresto di 33 persone tra cui il “capo dei capi” della presunta organizzazione, Zhang Naizhong, “l’uomo nero”, autore della pax fra bande criminali che avevano già fatto una quarantina di morti.

 

Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho definì Prato «capitale europea» della mafia cinese, ma venti giorni dopo il tribunale del riesame aveva fatto cadere l’aggravante mafiosa e rimesso tutti in libertà. Sentenza confermata dalla Cassazione. Poi la decisione del gup di confermare il 416 bis a giugno. «È un processo in salita e difficile, perché ci sono due precedenti, ma è anche un’apertura verso l’esito delle indagini perché c’è stata una ricostruzione fatta all’origine che è sana, buona, giusta», dice Francesco Nannucci, oggi capo della Dia di Firenze e all’epoca delle indagini dirigente della squadra mobile di Prato. I camion erano utilizzati anche per operazioni illecite, con basi a Parigi, Madrid e in Germania. «Grandi quantità di contanti venivano messi nelle scatole, quelle utilizzate dai corrieri. Prendi una scatola media, piccola, ci metti dentro banconote da 500 euro, la carichi su un furgone che trasporta altre scatole con materiale vario e porti in giro soldi in tutta Europa. Potrebbero farlo per altri», prosegue, ipotizzando scenari inquietanti. «Com’è possibile che la criminalità organizzata italiana non sia sensibile alla potenza criminale della mafia cinese? Una mafia che ha possibilità di mobilitare tantissimi soldi, con capacità imprenditoriali enormi. Come mai non sono mai venute fuori queste commistioni? È la nuova frontiera degli assetti investigativi da curare: i rapporti fra le mafie italiane e la mafia cinese».

 

Il 13 ottobre la Guardia di Finanza indaga 210 persone, tra cui 52 imprenditori cinesi e 46 prestanome nell’operazione “Easy permit”. Due consulenti del lavoro e cinque titolari di società di elaborazione dati cinesi e italiani sono accusati di aver creato una fabbrica di permessi di soggiorno per prestanome cinesi a favore di lavoratori della stessa nazionalità: 250.000 euro in contanti e quattro lingotti d’oro sequestrati sarebbero serviti anche a lavare denaro. Negli stessi giorni carabinieri e Ispettorato del lavoro hanno scoperto che il 67 per cento dei lavoratori di imprese cinesi controllate non avevano il permesso di soggiorno, perché clandestini o destinatari di un’istanza di emersione secondo il Decreto rilancio con contratti di lavoro domestico o agricolo. «Si è creato un esercito di persone che si sono dovute cancellare i contratti perché così non vengono sanate nel tessile ma con il lavoro domestico. Dall’altro lato ci sono aziende che fanno lavorare solo queste persone in attesa che non possono richiedere un contratto e che staranno zitte a nero 14 ore al giorno», spiega Luca Toscano. A maggio con Sarah ha ricevuto un foglio di via per «pericolosità sociale». «Non si può dare un foglio di via per attività sindacale, Tar e Consiglio di Stato ce l’hanno annullato», dicono raccontando gli sgomberi delle forze dell’ordine e le multe ai lavoratori in virtù del Decreto Salvini. «Siamo stati accusati di mettere a rischio i lavoratori. Molti sono giovani, dai 19 ai 25 anni, ma qual è l’alternativa per loro?».