Pechino preme per annettere l’isola e Washington aumenta l’impegno a difenderla: una sfida geopolitica sempre più pericolosa

Il 9 e 10 dicembre 2021 gli Stati Uniti hanno ospitato il primo Summit for democracy, un incontro virtuale a cui sono stati invitati numerosi capi di governo, esponenti della società civile e dirigenti del settore privato in rappresentanza di 110 Paesi. Lo scopo, secondo il Dipartimento di Stato, era «focalizzare l’attenzione sulle sfide e le opportunità che le democrazie si trovano di fronte», affrontando tre tematiche fondamentali: «La difesa contro l’autoritarismo, la lotta alla corruzione e la promozione del rispetto dei diritti umani».

 

Se vi sembrano parole vecchie, avete ragione. Vecchie ma ancora utili come schermo per mascherare le vere questioni in discussione: prima fra tutte il contenimento della potenza cinese. Come ha scritto pochi giorni fa Jonathan Spyer (The Australian), «l’ascesa della Cina, diventata ormai un peer competitor (un rivale alla pari, ndr) degli Stati Uniti, è il processo geopolitico più significativo del nostro tempo. In maniera speculare, lo sforzo che gli Usa e i loro alleati stanno compiendo per prevenire l’avanzata della potenza cinese nella regione dell’Indo-Pacifico è il più importante progetto strategico che stia prendendo forma al mondo».

 

L’apparentemente innocuo «summit per la democrazia» voluto dall’amministrazione di Washington fa parte di questo progetto strategico: perché tra gli invitati a partecipare c’era la Cina di Taiwan e non la Repubblica popolare cinese. Ovvero la Cina che dal 1971 non è più riconosciuta dalle Nazioni Unite, ed è quindi - dal punto di vista del diritto internazionale - non un legittimo Stato sovrano, ma una regione separatista «ribelle» (nel senso tecnico di chi non accetta la fine di un conflitto e decide quindi di renovare bellum, continuare a combattere, da cui il termine rebellio).

 

La Repubblica di Cina venne creata nel 1949 dai nazionalisti del Kuomintang costretti a fuggire sull’isola di Taiwan dopo essere stati sconfitti dai comunisti di Mao. Trent’anni dopo, gli Stati Uniti, incoraggiati dalla rottura tra i regimi di Pechino e Mosca, riconobbero ufficialmente la Repubblica popolare come «unica» Cina, alla quale spettava quindi il seggio permanente nel Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite. Taiwan venne sospinta in un limbo da cui non è più uscita: la politica di Washington è stata, da quel momento, improntata all’«ambiguità strategica» (strategic ambiguity), ovvero non compromettersi sostenendo l’indipendenza di Taiwan de iure, posizione inconciliabile con il mantenimento di relazioni diplomatiche con la Repubblica popolare cinese, ma garantirla de facto, proteggendo l’isola con le proprie forze aeronavali.

 

Taiwan, infatti, è considerata un avamposto fondamentale nello scacchiere dell’Estremo Oriente. Dove la situazione si è per altro molto complicata dalla fine della seconda guerra mondiale. La dissoluzione dell’impero nipponico ha lasciato un vuoto di potere, solo parzialmente riempito dagli Stati Uniti: per questo, undici tratti di penna su una mappa del mar della Cina meridionale (la porzione di oceano Pacifico tra Taiwan a nord-est e la Malesia a sud-ovest), aggiunti nel 1947 dalla mano di un anonimo funzionario cinese, sono ancora oggi al centro del confronto e dell’ostilità tra potenze grandi e piccole. Dal 1949 la Cina popolare ha rivendicato il controllo su tutte le isole, isolotti e reefs (scogliere coralline) all’interno della zona compresa negli undici tratti di penna (ridotti poi a nove dal ministro degli esteri cinese Zhou Enlai, su richiesta del regime nordvietnamita, per escludere il golfo del Tonchino): posizioni che il Giappone aveva occupato fin dagli anni ’30 ed era stato costretto ad abbandonare dopo la resa del 1945.

 

La questione è di enorme rilievo strategico, perché Pechino sta cercando di ottenere il controllo esclusivo dei traffici e delle immense risorse naturali del mar della Cina meridionale; le Filippine, che a loro volta rivendicano il controllo di alcuni lembi di terra emersa, hanno portato il caso di fronte alla Corte internazionale dell’Aia, chiedendo di condannare le azioni cinesi.

Il 12 luglio del 2016 la Corte ha accolto all’unanimità l’istanza di Manila, concludendo che «non vi è alcuna prova che la Cina abbia mai esercitato nel corso della storia un controllo esclusivo sulle acque o sulle risorse rivendicate, e quindi la Cina non ha alcuna base legale per rivendicare “diritti storici” sull’area all’interno della nine-dash line».

 

Pechino ha risposto definendo «mal concepita» la sentenza della Corte e continuando a costruire nuove isole dove c’erano soltanto scogliere semisommerse, per poi presidiarle come fossero lembi riconosciuti di terra cinese. Nel marzo del 2015 l’ammiraglio Harry B. Harris, Jr., allora comandante della Flotta del Pacifico, utilizzò l’espressione Great wall of sand («Grande muraglia di sabbia») per indicare queste attività, perché navi cisterna cinesi stavano pompando sabbia su affioramenti di barriera corallina, che poi «cementavano» a velocità impressionante: uno sforzo titanico, capace di creare circa 800 ettari di superficie emersa adatta ad ospitare postazioni missilistiche, magazzini e piste d’atterraggio. La loro funzione sembrerebbe eminentemente difensiva, come lascia intuire anche la definizione dell’ammiraglio Harris; si tratta comunque di una linea di condotta che viola i principi del diritto internazionale, capace di alterare gli equilibri strategici nel Pacifico occidentale, rendendo più probabile l’eventualità di un confronto armato nella regione.

 

In questa cornice, la questione dei rapporti tra Pechino e Washington a proposito dello status di Taiwan è il nodo cruciale. Da parte cinese non ci sono ambiguità: Pechino ha sempre detto di considerare la riunificazione dell’isola alla madrepatria come un obiettivo irrinunciabile, anche se da ottenere con pazienza e prudenza. Atteggiamento che sta cambiando di fronte all’abbandono statunitense della strategic ambiguity: perché Washington ha dato chiari segni di considerare ormai altrettanto irrinunciabile la difesa dell’autonomia taiwanese. Nel 2019 sono state formalizzate le relazioni consolari già esistenti tra i due Paesi; nell’ottobre del 2020 il Dipartimento di Stato ha approvato la vendita di 400 missili da crociera anti-nave a Taiwan (un contratto da 2.370 milioni di dollari); il 9 gennaio 2021 il segretario di Stato Mike Pompeo ha abolito le restrizioni autoimposte sui contatti tra membri dei due governi, definendo Taiwan «una democrazia vivace e un partner affidabile degli Stati Uniti»; il presidente Biden, infine, ha lasciato intendere che gli Usa difenderebbero Taiwan in caso di necessità.

 

La risposta di Pechino è stata durissima: il presidente Xi Jinping, in un incontro telefonico con Biden, ha ammonito Washington a non «giocare col fuoco» incoraggiando le ambizioni separatiste di Taiwan. Navi e aerei di Pechino si vedono sempre più spesso nei cieli e nelle acque attorno all’isola, i cui vertici militari stanno studiando ogni possibile scenario: non soltanto un’invasione convenzionale, ma l’inquietante prospettiva di dover affrontare attacchi di altro genere, dalla guerra economica alla sovversione armata, dal sabotaggio dei sistemi informatici essenziali al funzionamento di un Paese moderno a nuove forme di terrorismo. Nel frattempo il controverso accordo Aukus, firmato il 15 settembre 2021, ha mostrato la volontà di Usa, Australia e Regno Unito di irrobustire la propria presenza militare nell’Indo-Pacifico. La sfida è appena iniziata.