Nell’Isola sopravvive la tradizione della pesca a reti fisse, tra tonnare, gabbie e colpi di lupara. Mentre la domanda di sushi fa schizzare il prezzo (foto di Daniel Etter)

Lo scirocco non piace né agli uomini né ai pesci. Ecco perché la mattina del giorno della mattanza, l’atmosfera sulla banchina della tonnara di Isola Piana, a Sud della Sardegna, non è allegra.

«Pensavamo di cavarcela in poche ore...», mormorano i tonnarotti, mentre caricano le barche in legno per l’evento che conclude la stagione di pesca a Carloforte. «La mattanza andrebbe rimandata», azzarda il capo, il Rais, Luigi Biggio. Ma Giuliano Greco, uno dei tre fratelli proprietari di questa e di altre tonnare sarde, è di tutt’altro avviso: «Domani parto per Genova. La mattanza si fa e basta». È l’unico della famiglia a dedicarsi interamente all’attività e a prendervi parte da sommozzatore.


Ci si prepara così, ancora una volta, a questa particolarissima battuta di caccia, un rito millenario che, però, ruota sempre più attorno alle leggi di mercato. I tonni pinna blu, dal manto bluastro e luminescente, hanno, infatti, smesso di essere trattati alla stregua di «antichi dei», secondo la definizione di Ernest Hemingway, per tramutarsi in prodotto di consumo. Ogni giorno infruttuoso costa alla tonnara 9.000 euro in più. Anche per questo Giuliano Greco ha fretta di concludere.


Il thunnus thynnus, conosciuto come tonno rosso, è il più grande e il più veloce tra i tonni, con un peso che oggi varia tra gli 80 e i 500 chili. In passato arrivava anche a 900. Tra i pochissimi pesci a sangue caldo, entra nel Mediterraneo dall’Atlantico attraverso Gibilterra, ed è anche uno dei più pregiati al mondo. Alle aste giapponesi, dove arriva dopo essere ingrassato negli allevamenti di Spagna e Malta, è battuto per milioni di euro. Furono i fenici a fondare le prime tonnare, più di tremila anni fa. Ed è ad allora che risalgono i primi esemplari siciliani di pesca a reti fisse, ovvero complessi sistemi a forma di aquilone, in cui i tonni vengono spinti di vasca in vasca, di camera in camera nel gergo, finché rimangono intrappolati nella Camera della Morte, dove sono sollevati e uccisi. In passato si usavano gli arpioni ma oggi, un po’ per non rovinare la delicata carne del tonno, un po’ per la pressione internazionale contro questa pratica così cruenta, si preferiscono gli uncini.


In Sardegna, le prime tonnare fisse risalgono all’occupazione spagnola del Cinquecento. E nell’isola, a dispetto del passato dominio siciliano, oggi si trovano le uniche due rimaste in attività nell’intero Mediterraneo. Solo a Isola Piana si celebra, però, la mattanza tradizionale. Nell’altra, a Capo Altano, da quest’anno hanno cambiato metodo, innescando una diatriba che continua fuori dall’acqua. Pur appartenendo originariamente anche questa al variegato impero dei Greco, per metà avvocati e per metà mercanti giramondo, qualche anno fa è stata affidata alle cure di un’altra famiglia.

A bordo della musciara, il Rais siede sempre a prua, da dove osserva e dirige i lavori. «Ogni anno caliamo la tonnara nello stesso posto, allineo i segnali presenti a terra senza gps, tutto a occhio», dice Biggio, tirando l’ennesima boccata di sigaretta. Ha iniziato quasi 40 anni fa. «All’epoca venivamo trattati come schiavi. Le cime venivano tessute a mano con la fibra di cocco; caricavamo tutto sulle spalle e poi via a remi. Per calare le reti, al posto della catena, usavamo le pietre delle cave», racconta il Rais, mentre gli uomini si dispongono a bordo. “Bubu”, il capobarca, gode di ampio rispetto.

Lo conferma “Lollo”, un ventinovenne dalla lingua lunga, costretto a ritornare a fare il tonnarotto, dopo che il bar per cui sperava di aver cambiato vita, è fallito a causa del Covid-19. “Fenicottero”, appena diciottenne, parla poco ma si dà un gran da fare, mentre “Cazzillo”, complice qualche bibita di troppo, prova a innescare il buon umore. Bisogna trasferire gli ultimi tonni dal Bastardo, la camera attigua, alla Camera della Morte. Mare e cielo si tingono dello stesso grigio e la barca impazzisce per le onde: è impossibile capire cosa succede sul fondo. Finché i sommozzatori lanciano l’allarme. I pesci stanno uscendo dalla vasca invece di entrare.


«Sono come le pecore, se uno esce, gli altri seguono in massa», bisbiglia “Zichichi”, lo scienziato del mare, a cui hanno appioppato per questo il cognome del fisico. E mentre il Rais si cala in acqua con la sua muta maculata, “Zichichi” racconta di un mestiere che si sta estinguendo. «Il mare per me è una passione, ma sono retribuito troppo poco. I ragazzi che vedi qui, domani potrebbero non esserci più. Se vuoi tramandare la cultura della tonnara, devi affrontare certi argomenti». Anche per questo, soprattutto in Sicilia, una dopo l’altra, nella seconda metà del Novecento, le tonnare fisse hanno chiuso.


Ma non solo. «I tonni passano meno sotto costa per l’inquinamento, soprattutto acustico, provocato dagli aliscafi. E poi c’è stato il cambio del mercato. La tonnara è una pesca per certi versi artigianale, ma richiede capacità di investimento. Tre stagioni fallimentari portano alla bancarotta dell’armatore», spiega Ambra Zambernardi, antropologa marina e docente all’Università di Torino. Nel mercato miliardario del tonno a pinna blu, principalmente orientato all’industria del sushi nei mercati asiatici, la tonnara ha un ruolo marginale, e proprio per questo ha dovuto pagare il prezzo più alto dei tagli nelle quote pesca adottati negli anni dall’Iccat (International commission for the conservation of atlantic tunas), il controverso organo internazionale addetto alla conservazione dei tonni. Nel 2011, quando il thunnus thynnus era a rischio estinzione, si è arrivati al minimo storico nel Mediteraneo e nell’Atlantico Orientale, e conseguentemente in Italia con, rispettivamente, 12.900 e 964 quote. Grazie a queste misure, ma anche all’insistenza del mercato, l’anno scorso l’Iccat ha deciso di triplicarle, portandole a 36.000, e destinandone 4.745 al nostro Paese. Di queste, solo 383 spettano alle tonnare fisse, mentre la stragrande maggioranza è riservata alle barche a circuizione, che in una settimana catturano il pesce che in tonnara si pesca in due mesi.


Anche i Greco hanno dovuto fare i conti con questi cambiamenti. La famiglia, originaria di Genova, al pari dei padri fondatori dell’Isola di San Pietro, acquisì le quattro tonnare del Sulcis nel 1671 dal Re Filippo II di Spagna, caduto in disgrazia. Assieme alle due operative di Isola Piana e Capo Altano, fuori Portoscuso, fino a pochi anni fa possedeva anche Calavinagra e Portopaglia, che quest’anno hanno preferito non calare le reti, per via del crollo del prezzo del tonno causato dalla pandemia. Oggi la proprietà, oltre che di Giuliano, è dei fratelli Andrea, che guida lo studio legale del padre novantasettenne, e Pier Paolo, il più anziano, con residenza a Zurigo, affari in Russia e un occhio alle pubbliche relazioni dell’intera famiglia.

Per anni il tonno sardo si è identificato con Portoscuso. Poi i fanghi rossi, provocati dalle scorie minerarie del Sulcis, li hanno convinti a cambiare: «Per puntare sulla qualità non potevamo associare il nostro logo a un pesce inquinato. Ecco perché 20 anni fa abbiamo sostituito il brand Portoscuso con Carloforte», spiega Pier Paolo Greco.


Risale agli anni Duemila anche la scelta di cedere ai Farris, una famiglia di imprenditori locali, la proprietà di Capo Altano, Calavinagra e Portopaglia, con un accordo quasi paritario (52 per cento ai proprietari e 48 ai partner) degli incassi totali di tutte e quattro le tonnare. Ma da quest’anno l’equilibrio tra i due è saltato. Mentre a Isola Piana il Rais Luigi Biggio pesca alla vecchia maniera, il fratello Ettore, al lavoro con i Farris, ha sovvertito la tradizione. E ora ai tonni spara con la lupara. C’è di più. Secondo i Greco, i Farris, senza consultarli, e dopo aver venduto buona parte delle proprie tonnellate di tonno a una barca, hanno utilizzato una gabbia per concentrare i tonni e abbatterli a fucilate.

In realtà, l’idea della gabbia fu proprio di Pier Paolo, chiamato nel 2010 a escogitare un sistema per ovviare al taglio delle quote. Così, anche adesso, 160 delle 187 tonnellate di pesce di Isola Piana finiscono nella gabbia, fissata alla tonnara tramite un tunnel inserito alla fine della Camera della Morte e destinata a una delle quattro multinazionali del tonno, la Ricardo Fuentes e Hijos. Un sistema che suscita non poche obiezioni. «In questo modo la tonnara fissa, più sostenibile, si lega indissolubilmente agli allevamenti ittici intensivi, perdendo totalmente di senso», nota Alessandro Buzzi del Wwf Italia. Andrea Farris, dell’omonima famiglia, non solo difende le ragioni della gabbia ma anche la scelta del fucile. «Da noi c’è innovazione. Mettiamo i tonni in gabbia e gli spariamo in testa, così non si stressano. La mattanza è crudele. E poi noi riusciamo ad approvvigionare il mercato nazionale più a lungo, ammazzando il pesce selettivamente giorno dopo giorno, secondo le richieste».


A Capo Altano, mentre due sommozzatori, con le lupare strette in vita, scompaiono dentro la gabbia, tutt’attorno sale un silenzio rarefatto e l’acqua s’increspa in modo anomalo. All’improvviso, compare un elicottero da dietro le rocce. In breve arrivano anche due gommoni. È la Guardia costiera che sequestra il pescato. Il trambusto fa agitare i pesci. E anche Farris, che interrompe l’operazione e impreca contro i Greco: «Pier Paolo del tonno sa solo che lo metti in scatoletta e lo mangi. Di tonnara non capisce nulla».