Le passeggiate al parco, i musei della memoria, il ritrovo degli emigrati della diaspora, la scuola montessoriana: la scommessa è provare a mantenere la quotidianità (foto di Alessio Mamo)

Chiudete gli occhi e immaginate.


Immaginate di alzarvi la mattina, accompagnare i bambini, i ragazzi a scuola; poi andare in ufficio, dove ogni giorno incontrate tantissime persone, soprattutto donne. Nonostante la fatica, la burocrazia, la lentezza, ci sono dei progetti che fanno sperare. Sì, sperare che un giorno non si debba camminare con la paura di un attentato al mercato e che la tua città, il tuo Paese, possano splendere di tutte quelle iniziative ed energie che ogni giorno ti fanno andare avanti. Perché sono piene di persone luminose che credono nella pace da costruire e in tutto quello che fanno, che fate insieme. La giornata di lavoro è quasi finita, un passaggio al mercato per comprare della frutta, il solito traffico asfissiante e si corre al parco coi ragazzi.

Al City Park di Pole Artel tra un giro di giostra e un tiro a segno, in mezzo a tante altre famiglie, guardate il tramonto sulle colline di case colorate a Koh Toup Hill che sembrano riflettere i colori delle giostre che ruotano, colori pastello e accesi che cancellano le fatiche della giornata. La ruota gira, la giostra fa la sua corsa: una giornata che finisce, una che ricomincia. Nel weekend, infine, immaginate di fare una passeggiata al Lago Qargha con le amiche e i loro figli. Sono solo nove chilometri a nord di Kabul, ed è la meta preferita degli abitanti della capitale per respirare un po’ di aria pulita fuori città. Oppure di andare finalmente al Museo Nazionale dell’Afghanistan dove i ragazzi sono stati di recente con la scuola per ripercorrere, attraverso i reperti e le mappe, i millenni di storia della propria nazione: vedere il patrimonio di un Paese immenso, per lungo tempo via della seta, bellissimo ma ferito, e che vorrebbe rimarginare queste ferite e continuare a vivere.
Adesso aprite gli occhi. Tutto questo non c’è più.

 


Tutto quello che avete immaginato, i cittadini e le cittadine di Kabul, o almeno una parte più fortunata di essi, lo hanno veramente vissuto. Solo che ora non ci sarà più. Almeno non c’è adesso e non ci sarà nei prossimi mesi a venire. In attesa di capire, di poter lavorare, di ricominciare. O solo di scappare.
«Kabul è come un grande cimitero in questo momento», dice senza mezzi termini Massoud al telefono dalla capitale afghana. Per motivi di sicurezza non scriviamo il suo vero nome. «Le persone sono vive, ma sono morte dentro. Non sono felici, non possiamo essere felici con i talebani al potere. I parchi sono vuoti, la città è silenziosa, ci sono poche donne, quelle che si vedono portano il burqa. L’unico sentimento che percepisco attorno a me è la paura». Nonostante questo, centinaia di persone in questi giorni sono scese in strada a sostegno della resistenza in Panjshir e per chiedere libertà. Le voci di uomini e donne in marcia però sono state soppresse e disperse dagli spari dei talebani.


Mentre accompagna suo figlio piccolo a scuola, Massoud lascia la grande di 21 anni a casa, con la moglie. Voleva studiare medicina, ma non crede che ora potrà più ipotizzare a breve l’iscrizione universitaria. «Le università sono chiuse, gli uffici sono chiusi, solo le scuole sono aperte, ma per le ragazze soltanto fino al sesto grado. Tutto è cambiato. Per ora ci sono solo annunci, non sappiamo cosa verrà trasformato in regole definitive. Non intravedo possibilità, segni di sviluppo, non vedo gente capace di ripristinare opportunità di lavoro e di pagare gli stipendi».


Massoud, come molti altri, avrebbe avuto la possibilità di lasciare Kabul con la sua famiglia tramite l’organizzazione internazionale con cui lavora. Non l’ha fatto per due motivi. Il primo, scriveva il 25 agosto su WhatsApp, è che andare in aeroporto «è un suicidio». Meno di ventiquattro ore dopo, la storia gli ha dato ragione. Un attacco kamikaze all’aeroporto di Kabul ha ucciso almeno 182 persone, di cui 169 civili afghani e 13 membri dell’esercito americano. L’attacco è stato rivendicato dall’Isis della provincia di Khorasan, conosciuto anche con l’acronimo Iskp. Il secondo motivo verrà fuori dopo. «Non voglio abbandonare l’ufficio, voglio prendermi cura di quello che abbiamo costruito e capire cosa succederà. Se col tempo capirò che non si può fare più niente, anche io cercherò di fuggire». Nel frattempo, lontano dalle evacuazioni all’aeroporto, il confine con l’Iran e il Pakistan continua ad essere pressato da centinaia, migliaia di persone. Salgono sulle montagne verso l’Iran a decine e si mettono in fila diretti in Pakistan.


Dall’altro lato del mondo, in Australia da tre mesi, Asal non fa che scorrere le immagini e i video sul cellulare degli ultimi anni. Ha lavorato come attrice per serie tv e cinema, il set, con tutte le sue regole e frustrazioni, è stato il luogo in cui si è sentita sempre a casa. È nata nel 1996, con la presa di potere allora dei talebani in Afghanistan ancora bambina è stata costretta a rifugiarsi in Iran insieme alla famiglia. È stato proprio grazie a dei programmi di teatro per rifugiati nel Paese ospitante che ha cominciato a recitare da adolescente, fino al successo nel cinema afghano poco meno che ventenne.

 

Tra le immagini sul cellulare c’è il lago di Qargha, vicino Kabul, un luogo di risate, spensieratezza e di tanti autografi da firmare ai fan. Andare sull’enorme vascello-giostra che faceva su e giù e avanti e indietro, velocissima, era la sola paura. «Se vivi a Kabul, prima o poi ti abitui agli spari, agli elicotteri che passano in continuazione, e purtroppo anche agli attentati che possono rovinarti la vita. Ma adesso se guardo indietro a Kabul, penso agli incontri con le registe, alle mostre di arte a cui partecipavamo, alle ore infinite sul set, alle colazioni lunghe al ristorante turco; mentre ora a Sydney non posso muovermi, ho già perso tre progetti di lavoro in Iran; penso alla mia famiglia e a quando ho saputo dell’arrivo dei talebani: non ho mangiato e dormito per giorni, la mia salute mentale è stata compromessa per sempre». Asal ha quasi venticinque anni, e a migliaia di chilometri di distanza incoraggia la mamma a Kabul a danzare: «Ascoltate la musica e ballate dentro casa, non ci possono fermare, non ci devono fermare, dobbiamo continuare a vivere».


Tra le attività clandestine, danzare non sarà l’unica. Le insegnanti della scuola Montessori di Kabul sono pronte a fare lo stesso. Come facevano molte insegnanti alla fine degli anni Novanta, durante il primo regime talebano. «Pazienteremo per capire ancora cosa succede», dice a distanza da Kabul Allison Lide, fondatrice vent’anni fa del progetto di educazione Montessori per i bambini orfani di diverse etnie dell’Afghanistan. «Ma abbiamo un piano B, se non potremo riaprire. Faremo scuola a casa, di nascosto, le insegnanti apriranno le loro porte come fino a due decenni fa. Chiederemo al nostro staff di andare dove ci sono gli sfollati e proveremo a sostenere anche loro».


Negli ultimi giorni alcune donne, attiviste e scrittrici, sono scese in strada nella capitale e in altre città del Paese per protestare contro la legittimazione del potere dei talebani, per affermare che le donne del 2021 non sono più quelle di venticinque anni fa. Ma sarà possibile un piano B anche per il Giardino delle donne, dove si facevano i corsi di informatica, inglese e la preparazione alla scuola guida con le prove pratiche, gli esami e la patente da conseguire alla Rouhani Driving School, aperta ad accogliere ed incoraggiare le donne? E chi metterà piede adesso a Chicken Street dove gli afghani della diaspora ad ogni rientro in patria compravano i più bei tappeti persiani, il cui prezzo era da contrattare per almeno due ore seduti a un tavolino bevendo un tè? E riaprirà mai il Museo delle mine e della guerra dove l’associazione Omar invitava le scolaresche a riconoscere i campi minati e a studiare la storia del Paese attraverso vecchi aeroplani sovietici dismessi e trasformati in aule informatiche? Che ne sarà del Museo nazionale dell’Afghanistan dove da anni, rimettendo insieme coccio dopo coccio, un team di restauratori afghani ridava luce a statue buddiste distrutte dai talebani a fine anni Novanta? Lo stesso team le aveva salvate allora, nascondendole negli scantinati in grandi bauli. Ed il Museo delle vittime di guerra e della memoria dei dispersi avrà più la sua sede, per quanto celata, in una casa di Kabul, ora che di vittime e di nuovi dispersi se ne contano già a centinaia e tutti sono in pericolo? Chi potrà passeggiare al Mercato degli uccelli Kocha Kah Faroshi e chi potrà contribuire a restaurare le bellissime case della vecchia Kabul, Shahr Kohna? Tutti questi luoghi sono stati abitati da una speranza e rischiano di essere sotterrati dalla violenza o peggio ancora dall’oblio. E nonostante la guerra, la corruzione, la paura degli attentati, l’insicurezza di questi ultimi due decenni, solo guardando alla quotidianità, alla bellezza di quello che i cittadini afghani sono riusciti a creare, possiamo provare a capire cosa sta per essere irrimediabilmente perduto. Fosse anche solo uno spensierato giro di giostra.