Libertà, verità, speranza. La filosofia è sempre più presente nel dibattito pubblico, oscillando tra elitismo e demagogia. Ma uno scambio di opinioni confuso la condanna all’irrilevanza

Non si può negare che per la filosofia sia stata un’estate particolarmente agitata. Riflettori puntati, prime pagine, luci della ribalta. D’altronde è così da quando il coronavirus ha fatto irruzione negli spazi pubblici mutando profondamente l’esistenza quotidiana. Pur tra le numerose insicurezze e i fitti dubbi provocati dalla pandemia, questo è almeno certo: la filosofia è necessaria, indispensabile.


Chi non ha disquisito in questi mesi di libertà, chi non si è lanciato in interminabili dibattiti sulla democrazia? Per non parlare di temi come la paura, la speranza, la responsabilità, la verità, l’immunità, la vulnerabilità, la coesistenza, il significato dell’abitare, la città futura. L’elenco è lungo e si potrebbe quasi credere che l’amore per la filosofia sia in questo Paese una passione condivisa. Il che trova in parte conferma nell’entusiasmo che il pubblico manifesta agli eventi di piazza come il Festival di Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, in corso in questi giorni.

La filosofia è allora popolare? Malgrado quell’alone di impopolarità da cui, soprattutto se misurata alla scienza, non riesce a liberarsi? Qualcuno potrebbe assentire ribadendo che la filosofia è popolare perché appartiene a tutti. Non è forse vero che tutti pensano e tutti sono responsabili? Non discende allora di qui l’idea che siamo tutti filosofi – e tutte filosofe?

 

La questione, di per sé antica, si è imposta nella sua dirompenza quando la cultura dei Lumi, che ispirava la repubblica giacobina, ha deciso di portare la filosofia a tutti considerandone l’eminente valore educativo. Non ci sono cittadini, e soprattutto non c’è democrazia, senza una salda base filosofica. Se nelle scuole europee, pur nella varietà di programmi e impostazioni, si studia filosofia è grazie a quelle misure rivoluzionarie. Ma che cosa significa portare la filosofia al popolo?
Popolare non vuol dire populista. Ecco allora il grande problema che, emerso altrove, in Italia è stato sempre aggirato. Non solo la politica, ma anche la filosofia è stretta nella morsa tra populismo ed elitismo. Si può anzi sostenere che proprio in ambito filosofico questa morsa, questa trappola viene chiaramente alla luce. E chissà che da qui non si possano aprire alternative.

 

Negli innumerevoli talk show, sugli schermi dei social, sui giornali e in ogni mezzo di comunicazione, si sono avvicendati, durante la pandemia filosofe e filosofi del tutto ignoti al mondo accademico (qualcuno con una laurea, qualcuno forse senza). L’etichetta, però, risaltava ben in vista: “filosofa”, “filosofo”. Forse questo non sarebbe stato possibile con un virologo o un epidemiologo. Tanto più che i sedicenti filosofi o le presunte filosofe campeggiavano anche nelle trasmissioni che si proponevano di arginare apertamente il populismo in nome del sapere degli esperti. Il che la dice lunga sul modo in cui la filosofia è vista nel nostro paese.

 

Questa deriva populistica ha gettato nello sconforto tanti giovani colleghi (gli anziani sono più rassegnati), umili e seri, studiosi e coscienziosi, che ogni giorno con trasporto e fatica conducono le loro ricerche su Platone e Spinoza, Aristotele e Kant, Husserl e Heidegger, Benjamin e Derrida, Blumenberg e Cavell. Così una mia collega del Dipartimento di Filosofia della Sapienza alla fine è sbottata lasciando su Facebook un acre commento: «È parecchio tempo che mi rodo il fegato e taccio, ma oggi mi sento interpellata come docente universitaria. Questo dibattito tutto ripiegato sull’antitesi tra obbligo e libertà mi ha nauseato». Come darle torto? Per i filosofi di professione, quelli con la F maiuscola, è una pugnalata alla schiena sentire una conduttrice televisiva che, come fosse un dogma, ripete «la mia libertà finisce dove comincia quella altrui». Tutto il pensiero del Novecento è una critica, a tratti molto aspra, a quest’idea moderna e un po’ semplicistica di libertà. Ma che importa? Chi sa niente, fuori dalle mura accademiche, della filosofia novecentesca? Per non parlare di quella degli ultimi decenni. E se questo è triste per la cultura e soprattutto per la letteratura (a parte rare eccezioni nella narrativa italiana la filosofia contemporanea è una grande assente, al contrario di quel che capita in altri Paesi), è davvero deplorevole per la politica. Qualcuno, tra i più istruiti e informati, giunge sino a Foucault, preso per l’attuale avanguardia. Ma poco o nulla si sa di quel che accade nel dibattito filosofico contemporaneo (qui e altrove) e che – detto per inciso – sarebbe invece importantissimo per chi fa politica.

 

Ma se le cose vanno a questo modo forse sarà anche un po’ per colpa dei filosofi con la F maiuscola, o meglio, del perverso meccanismo universitario in cui sono relegati. Mi riferisco a quel perverso capitalismo accademico che obbliga ad acquisire crediti, impone di pubblicare su riviste definite scientifiche sulla base di criteri discutibilissimi ed equipara un articolo a un libro. È la morte della creatività. Se la libera ricerca subisce da tempo un attacco senza precedenti in tutte le materie, in filosofia tutto ciò ha effetti devastanti che si ripercuotono anche sulla sfera pubblica e, da ultimo, sulla democrazia.

 

Da alcuni anni, infatti, la scissione è netta. Da una parte ci sono i filosofi chiusi nella prigione universitaria, dove vecchi schemi storiografici, sempre più rigidi, imbrigliano la filosofia, dove si fa in modo che il pensiero non oltrepassi lo steccato, non tocchi il mondo là fuori e lo lasci così com’è. Dall’altra parte ci sono i prodotti del populismo filosofico: i saltimbanchi, i giocolieri, i furbacchioni, i venditori di fumo, gli impudenti opportunisti capaci di utilizzare il mondo mediatico per farsi un nome, i parolai senza scrupoli in grado di abbindolare la massa (e qui gli epiteti potrebbero essere anche al femminile). Nulla a che fare con i poveri sofisti che di filosofia se ne intendevano – eccome! – e svolsero un ruolo decisivo nello sviluppo della democrazia greca. Né si tratta della separazione tra filosofia accademica e filosofia di vita. Il fenomeno è tutto contemporaneo. Due voci altrimenti diversissime, quella di Catherine Malabou e di Michel Onfray, hanno usato l’espressione molto polemica “merci di contrabbando” per denunciarlo. In Italia potremmo parlare di mercato del falso.
 

Elitismo e populismo, specializzazione e demagogia sono le due facce della stessa pericolosa medaglia. Per un verso l’etichetta di “filosofi” sarebbe riservata solo a quelli riconosciuti come tali dall’Università, che si muovono tra teorie metafisiche, morali, epistemologiche e hanno familiarità con ogni sorta di -ismi, per l’altro saremmo tutti filosofi e dunque a ciascuno la propria risposta alle grandi questioni. Se i filosofi accademici e i professori di liceo si parlano addosso, nello spazio pubblico non resta che uno scambio confuso di opinioni, e se tutti possono disquisire su temi filosofici, allora la filosofia, ridotta a erudizione, è condannata all’irrilevanza.


Risale al fermento degli anni Settanta il tentativo di colmare questo divario. Deleuze, Foucault, Derrida sono un esempio inimitato di intellettuali mediatici, capaci di mediare, senza rinunciare alla radicalità, in grado al contempo di mutare il pensiero creativamente e di rivolgersi al grande pubblico. Di quegli anni non resta traccia se non nell’odierno filosofo mediatico che, se non è una musa arruolata al potere, a mo’ di Bernard Henri-Levy, è sempre esposto ad acrobazie rocambolesche, talvolta finite in cadute disastrose.

Certo è che, dopo la parentesi di quegli anni, il divario è aumentato.

I festival, i caffè filosofici, i dibattiti pubblici sono la spia di questa frattura e lo sforzo, non sempre riuscito, per superarla.

 

Chi ha diritto di governare, quando si deve disobbedire alle leggi, che cos’è il falso, che cos’è il male? Queste e altre domande assillano il filosofo che è in noi; ma “pensare con la propria testa” non basta. Occorre il rigore dello studio, l’impegno della lettura e soprattutto il dialogo con una tradizione che orienta nel pensiero. Il che è indispensabile per la propria esistenza e per la vita politica. La filosofia non è un vano discettare – come ho sentito dire da uno scienziato di recente. Solo in apparenza la scienza libera dalla responsabilità di una scelta che sembra obiettiva; a ben guardare è incapace di dare conto dell’importanza che ha assunto per gli esseri umani in un mondo sempre più estraneo, proprio perché sempre più manipolato da noi. È tempo di stabilire una nuova sinergia tra università e vita pubblica, tra filosofia accademica e spazio mediatico. Ma è tempo anche di estendere a tutte le scuole, anche agli istituti tecnici, l’insegnamento della filosofia, secondo una proposta avanzata già due anni fa. Bisogna che, come già avviene in altri Paesi europei, si lascino da parte i manuali e si impari la filosofia per grandi temi sulla base di testi temporalmente più vicini. Giusto studiare che cosa dice Platone sulla pólis, Kant sull’etica. Viviamo però in un mondo molto complesso in cui le giovani generazioni faticheranno a orientarsi se non avranno i mezzi per riflettere.