Un’inchiesta della Guardia di Finanza punta i fari sull’azienda pordenonese Alpi Aviation, acquisita da Pechino e attiva nella produzione di droni militari. Che, secondo gli investigatori, sarebbero stati venduti all’Iran

Si comprano tutto. Ora che di soldi ne hanno in abbondanza, fanno prima a rastrellare aziende e know how italiani e a trasferire poi baracca e burattini in patria che a girarci attorno attraverso lunghe e pericolose operazioni di spionaggio industriale. E questo succede anche se il mercato di riferimento è quello, strategico e dunque altamente sorvegliato, dei “prodotti militari”. Con il risultato che, per quanto assurdo possa sembrare, gli armamenti finiscono per non avere bandiera.

 

La prova arriva dal Friuli, dove si è dovuto attendere che un’inchiesta giudiziaria puntasse i fari sulla Alpi Aviation srl, società attiva nella progettazione e fabbricazione di aerei, elicotteri e droni dual use, per accorgersi che da oltre due anni la proprietà era passata in mani cinesi. Che poi significa sotto il controllo del governo di Pechino, visto che nella terra del Dragone, dove tutto fa capo al partito comunista, non esiste società che possa dirsi slegata dallo Stato. L’ipotesi a cui la Guardia di finanza di Pordenone ha lavorato, indagando su sei manager, tre italiani e tre cinesi, è che quello che era e resta uno dei fornitori ufficiali delle Forze Armate italiane e, dal 2019, pure di Leonardo spa del gruppo Finmeccanica, abbia venduto prodotti dual use anche all’Iran. Droni militari strix – quelli, per intendersi, impiegati dai nostri militari in Afghanistan –, ceduti senza l’autorizzazione del ministero dello Sviluppo economico a un Paese sottoposto a embargo internazionale. Accusa che l’azienda respinge fermamente. Ma che ha rinfocolato un dibattito che, a Nord-Est, aveva già visto i vertici di Confindustria opporre forti resistenze rispetto al prospettato sbarco della Cina nella piattaforma logistica del porto di Trieste.

 

 

Lo schema proposto dalle sorti di Alpi Aviation vale quanto un modello matematico. Fondata nel 1999 in un garage da tre giovani costruttori con la passione per il volo, l’azienda affianca in breve alla sede di San Quirino, a due passi dalla base Usaf di Aviano, una filiale in Croazia, dove concentra costruzione e assemblaggio degli aeromobili. Il salto di qualità arriva con la produzione dei droni. Cosa la renda tanto strategica per gli interessi commerciali internazionali resta materia di investigazione. Certo è che, a un certo punto, da piccola società di periferia finisce per diventare oggetto d’attenzione degli investitori. Quelli grossi e preferibilmente invisibili, schermati da shell corporation, come confermano le carte agli atti della Procura e come suggerirebbero anche i contenuti di otto dispacci diplomatici resi pubblici da WikiLeaks. È il 2009 quando Alpi Aviation finisce al centro di una fitta rete di comunicazione tra Usa, Giappone e Italia. A impensierire il Dipartimento di Stato americano sono gli “attuatori servo assistiti” prodotti dall’azienda giapponese Tonegawa-Seiko e sui quali l’Iran ha messo gli occhi per i suoi programmi di aeromobili a pilotaggio remoto. Il sospetto è che l’azienda friulana, cui risulta effettivamente esportata una parte di attuatori, i 200 Ps050, possa diventare, anche involontariamente, un ponte verso la Repubblica islamica. Da qui, la richiesta all’ambasciata di Roma di vigilare su eventuali approvvigionamenti all’Iran. La sorveglianza, tuttavia, si esaurisce in tre mesi e non porta ad alcuna evidenza.

 

È un fatto acclarato, invece, l’anomala acquisizione che, nel 2018, sposta la maggioranza delle quote di Alpi Aviation in territorio cinese. A presentarsi ai soci è la Mars information technology co. limited di Hong Kong: registrata appena cinque mesi prima e fissata la sede in uno studio legale specializzato nella domiciliazione di società offshore, dispone di un capitale sociale di soli 150 mila dollari, peraltro sottoscritti, ma non ancora versati. Eppure, per entrare in possesso del 75 per cento della torta, mette sul piatto un controvalore 90 volte superiore di quello nominale (3.995.466 euro a fronte di 45 mila euro).

 

L’affare va ovviamente in porto. Ed è seguito da un incremento di capitale repentino: 3,8 milioni di euro che, all’improvviso, passano da chissà dove alla provincia di Pordenone. Troppo, secondo la Procura che un paio d’anni dopo iniziano a scandagliare gli assetti di quella che, a tutti gli effetti, somiglia a una scatola vuota, per non chiedersi chi abbia in realtà finanziato l’intera operazione.

 

La risposta sembra portare in alto: ai vertici del governo cinese, nelle stanze in cui tutto si decide, politiche economiche comprese. È sufficiente tuffarsi nel mare magnum del web e stringere poi il cerchio attorno alle dichiarazioni rese alla stampa dalla Denton, uno dei più importanti studi legali al mondo, per ritrovare il nome di Alpi Aviation e scoprire che a controllarla indirettamente è la China corporate united investment holding, a proprietà mista e co-sponsorizzata da grosse imprese centrali e locali di proprietà statale. È il suo vicepresidente Li Xia, nel novembre del 2019, ad annunciare che parte della capacità produttiva sarà trasferita a Wuxi, dove si è cominciato a costruire uno stabilimento gemello. Come dire che la clonazione è in corso e che insieme alla forza lavoro a emigrare saranno anche testa e idee. I toni sono trionfali. L’operazione è definita da Pei Qiu, senior partner di Denton, “la prima transazione del suo genere, in cui una holding cinese ha acquisito un’impresa nel settore dell’aviazione high tech in Europa”.  Il problema è che parliamo di un’azienda italiana che progetta e realizza Unmanned aerial vehicle a uso militare e di law enforcement.

 

 

E cioè di un settore sottoposto a una disciplina ferrea in termini di protezione, ancora più di quanto non preveda la golden power. Le norme sul controllo dell’esportazione, l’importazione e il transito dei materiali di armamento (legge 9 luglio 1990, n.185) vietano finanche la delocalizzazione. A meno che non sia lo Stato ad autorizzarli, a cominciare dalla trattativa. Se, come e quando la comunicazione sia stata inoltrata a Roma è ancora oggetto di accertamenti. Qui, a ogni buon conto, si è andati oltre, visto che brevetti e tecnologia potrebbero appartenere ormai a un altro Paese. E che, come recita il capo d’imputazione formulato dal pm Carmelo Barbaro, tra i clienti dell’azienda figurerebbe l’Iran.

 

Dei quattro indagati, tuttavia, soltanto uno al momento – l’allora amministratore delegato italiano della società – si è visto contestare la violazione del dl 221 del 2017, art 18, norma sull’embargo e sulle esportazioni di prodotti e tecnologie a duplice uso, sia civile sia militare. Droni, appunto, che sarebbero stati ceduti attraverso un’operazione commerciale triangolata con la Turchia. L’ulteriore paradosso della vicenda comincia dagli altri tre nominativi: rappresentanti legali, chi prima e chi dopo, dell’Aecp, una onlus pordenonese, contestualmente iscritta anche come associazione sportiva dilettantistica all’Aeroclub Italia – quindi, con una doppia soggettività giuridica –, in tesi accusatoria fittiziamente operante in attività di Protezione civile. È attraverso la singolare sinergia operativa instaurata proprio con l’ente no profit che la Alpi Aviation avrebbe beneficiato per anni dell’occupazione abusiva dell’aviosuperficie “La Comina”. Un’area posta a ridosso del proprio sito produttivo, per buona parte di proprietà del Demanio militare (e assegnata alla Brigata corazzata “Ariete”) e, per la restante porzione, del Comune di Pordenone.

 

L’azienda friulana con socio di maggioranza cinese, in altre parole, ha svolto attività aviatoria in uno spazio aereo sottoposto a limitazioni particolari, per la vicina presenza della base Usaf di Aviano, compresa nella Atz (aerodrome traffic zone) militare nazionale. Non a caso, è su questa pista che è concentrato quasi il 90 per cento dei voli militari in Italia. Ragioni (e misure) di sicurezza che, tuttavia, non sono bastate a evitare saltuari passaggi a bassa quota di arerei privati e di alianti non autorizzati.

 

Come quello che, nel 2015, scatenò la reazione degli stessi militari americani che, alla maniera degli sceriffi, si presentarono in Comina e, pur senza titolo, identificarono piloti e addetti. Sarà poi la Difesa, nel 2016, a sospendere tutti i voli, a esclusione di quelli sanitari e di protezione civile. Uno scenario a tratti inverosimile quello ricostruito dalla Guardia di finanzia al comando del colonnello Stefano Commentucci. Tanto più se si considera che l’uomo scelto dai nuovi timonieri di Alpi Aviation per curarne gli interessi in Italia è una figura di prestigio nel campo dell’Aeronautica e non solo: l’ex comandante delle Frecce Tricolori e poi dirigente della Ferrari, Massimo Tammaro. Il suo nome, al momento, non figura sul registro degli indagati. C’è invece quello di un politico, il consigliere regionale del Fvg della Lega e già due volte sindaco di Porcia, Stefano Turchet, accusato di sola truffa, in qualità di presidente dell’aeroclub.

 

Il cerchio si chiude a Roma, dove gli investigatori sembrano avere trovato la regia del piano di rastrellamento imprenditoriale ordito dalla Cina. È lì che ha sede la Ccui Europe srl, società di servizi aziendali costituita nel 2016 e di proprietà della Ccui holding di Hong Kong. Nella relazione del bilancio di esercizio 2017, parla espressamente dell’“individuazione di opportunità di investimento nei settori indicati dalla controllante e dai diversi soci della controllante presenti in Cina e interessati al mercato italiano”, soffermandosi sulla valutazione di tre realtà produttive: la Alpi Aviation, appunto, il gruppo Gree holding spa, che opera nel settore del trattamento rifiuti e generazione di energia da rifiuti, e il gruppo Almaviva, attivo del campo It.

 

“Fu Lenin a dirlo: I capitalisti ci venderanno la corda con la quale li impiccheremo. Beh, quella previsione non si è realizzata con l’Unione sovietica, ma potrebbe accadere adesso con la Cina”. Michelangelo Agrusti, il leader degli industriali pordenonesi che dal 2020 presiede Confindustria Alto Adriatico, nata dalla fusione con la territoriale di Trieste e Gorizia, predica prudenza da tempo.

 

E i suoi moniti, un paio di anni fa, hanno contribuito a raffreddare gli entusiasmi di chi, anche a livello governativo, assecondava le ambizioni di espansione cinese attraverso l’insediamento di sue aziende nel porto giuliano. L’avevano battezzata nuova Via della seta, ma è stata superata dal recente accordo con il Porto di Amburgo (che ha peraltro portato linfa nuova ai rapporti con la diplomazia Usa).

 

“Viviamo in una fase di forte competizione geostrategica con la Cina, e cioè con un Paese che è entrato senza condizioni nel Wto ed è cresciuto in maniera esponenziale, pur mantenendo un assetto comunista e una presenza statale pervasiva, e che ha adottato politiche di dumping salariale e di concorrenza sleale con le produzioni equivalenti occidentali”, osserva Agrusti, abbondando con gli esempi, in primis il monopolio nella produzione dei semiconduttori. E allora, se l’invito a vigilare vale in condizioni di normalità, figurarsi ora che la pandemia ha generato una crisi di portata globale.

 

“L’ho evidenziato a una riunione con i prefetti del Fvg – continua –: non c’è soltanto il rischio di infiltrazioni mafiose. Il pericolo, adesso più che mai, è che in un Paese come il nostro che ha investito pochissimo nell’alta tecnologia e in settori strategici per la Difesa, sia un soggetto internazionale come la Cina a presentarsi e risolvere i problemi di liquidità delle aziende in difficoltà. Parliamo di intere filiere pronte a sfuggirci di mano, se non si provvederà a intensificare la sorveglianza statale sui passaggi di proprietà”.

 

Anche perché i segnali, al netto di Alpi Aviation, secondo Agrusti non mancano. Uno porta il nome e cognome di un uomo di Governo. “Fu l’allora sottosegretario allo Sviluppo economico, Michele Geraci, a venire a Trieste e spingere l’ipotesi di aprire l’area logistica del Porto alla Cina, dopo che si era comprata già il Pireo – ricorda –. Arrivò al punto di chiedermi se conoscessi aziende che potessero essere vendute ai cinesi. Tanto che ancora oggi mi domando se non fosse piuttosto un uomo al servizio di Pechino”.

 

L’altro alert porta alle Regioni e alle società che hanno indetto gare al massimo ribasso per l’acquisto di Dpi che hanno permesso ai cinesi di ripresentarsi. “Ma come – obietta Agrusti –, non era stata proprio l’Italia a creare una filiera che le permettesse di diventare autosufficiente? Questo significa spalancare nuovamente le porte alla concorrenza sleale”. Come non pensar male, insomma. “Esiste una Cina connection fatta di italiani che deprimono la possibilità di tenuta del sistema – la conclusione del leader degli industriali – e l’unica cosa che possiamo fare per difenderci è creare un’autosufficienza tecnologica e sanitaria. L’independence day del mondo libero occidentale”.