Il giorno dopo le tragedie siamo sempre tutti solidali. Stavolta, ci piacerebbe essere tutti le donne di Kabul o i combattenti del Panshir. Ma come possiamo, noi Occidente, essere quegli uomini e quelle donne se li abbiamo abbandonati scientemente al loro destino?

C’è sempre un 12 settembre, un giorno dopo, di commozione e buoni sentimenti. Vent’anni fa fummo tutti americani, nel 2004 tutti spagnoli per l’attentato di Atocha, nel 2005 tutti inglesi ed erano le bombe in metropolitana, nel 2015 tutti francesi con il Bataclan, nel 2017 tutti catalani causa scempio sulla Rambla. Siamo stati, un po’ meno, anche egiziani, libici, iracheni, siriani, maliani quando sono scoppiate guerre e rivoluzioni. Asiatici nel post-tsunami, africani nelle carestie. Con la pandemia ci siamo potuti sbizzarrire ad essere questo e quello seguendo la corsa del virus: persino tutti italiani.
Poi il tempo passa ci dimentichiamo in fretta di cosa siamo stati per lo spazio di un mattino e siamo pronti a indossare una nuova sciagura prêt-à-porter.


Arriva un altro 12 settembre e, stavolta, ci piacerebbe essere tutti le donne di Kabul o i combattenti del Panshir. Un senso del pudore dovrebbe trattenerci. L’abito ci va un po’ stretto. Come possiamo, noi occidente, essere quegli uomini e quelle donne se li abbiamo abbandonati scientemente al loro destino? Se vengono massacrati con l’arsenale che abbiamo lasciato nelle mani dei loro carnefici?


Vent’anni dopo è andata in cortocircuito la storia, per un gioco dell’oca è tornata al punto di partenza, come vuole la celebre frase di Marx si ripete in farsa. C’erano una volta i talebani, e ci sono ancora. C’era una volta Al Qaeda in Afghanistan e c’è ancora. Tanto da indurre a credere, allo scoccare dell’anniversario tondo, che sono morti invano le vittime delle Torri, i soldati partiti ad esportare la democrazia nel mondo, le centinaia di migliaia di caduti civili. Per questo l’attuale 12 settembre, invece della lacrima sul viso, si porta come sensazione il retrogusto amaro.