Nella regione del Panjshir si sta organizzando una resistenza al regime. Ma per darle credibilità serve il supporto della comunità internazionale

«Non è finita. Stiamo organizzando la resistenza nel Panjshir. Non devi dare retta alla propaganda. Non ascoltare quelli che dicono che Massoud sta pensando alla resa».


Conosco da tempo il tenente colonnello *** (il nome è stato oscurato per tutelare la fonte ndr), delle forze speciali afgane, e mi fido del suo giudizio. Ma sono giorni di grande incertezza. Ahmad Massoud, omonimo figlio del leggendario “leone del Panjshir” – 32 anni, una laurea in Conflict Studies al King’s College e un master in politica internazionale alla City of London University – si prepara a combattere la sua prima vera battaglia mentre sta trattando con i talebani. Gli chiedo che cosa speri di ottenere dai vincitori della “lunga guerra”.


«Non vuole una partecipazione al loro governo. Non qualche ministero come ricompensa per cedere le armi. Vuole la nascita di un nuovo governo a cui tutti siano chiamati a collaborare. Elezioni generali».
Non mi sembra probabile che il giovane Massoud riesca a ottenere la sopravvivenza della fragile democrazia afgana, che i talebani considerano un’imposizione occidentale, ma non insisto. Porto invece il discorso sul problema militare, che è poi il campo di interesse comune. Supponiamo che le richieste di Massoud non vengano accettate: che prospettive ha la resistenza nel Panjshir? Quanti combattenti si sono radunati nella valle? Come sono armati? Come possono mantenere i collegamenti con l’esterno?
«Sono migliaia. Mi capisci, non posso essere più preciso. Ci sono le milizie tagiche, che non hanno mai disarmato, e molti soldati dell’esercito nazionale afgano che hanno raggiunto il Panjshir con le loro armi e i loro mezzi di trasporto. Ci sono uomini delle forze speciali. Anche alcuni elicotteri da combattimento, con i loro piloti. Altri piloti hanno portato aerei ed elicotteri oltre frontiera, in Paesi amici come il Tagikistan e l’Uzbekistan. Anche due C-130, che possono tornare molto utili in caso di una prosecuzione della lotta. I talebani lo sanno: non possono prendere la valle».


Questo lo credo anch’io. Ma ne hanno davvero bisogno? Il Panjshir è isolato dal resto del mondo: possono limitarsi a tenerlo sotto assedio. Quando Ahmad Shah Massoud padre (1953-2001) combatteva contro i sovietici, negli anni Ottanta del secolo scorso, i suoi mujahidin erano riusciti a mantenere aperto un collegamento terrestre con il Pakistan, la cui frontiera dista soltanto una cinquantina di chilometri in linea d’aria dal limite orientale della valle; durante la guerra civile contro i “primi” talebani, dal 1996 al 2001, c’era invece alle loro spalle un’ampia zona amica tra il Panjshir e il Tagikistan, da cui potevano ricevere aiuti di ogni tipo. Oggi non è più così: grazie ad accordi separati con vari capi di milizie locali, i talebani sembrano essere riusciti ad occupare i valichi di frontiera e a circondare la valle di Massoud.
La prima mossa da fare, dal punto di vista strategico, per chi sta organizzando la resistenza, è dunque aprire a tutti i costi una via di comunicazione verso nord. Il tenente colonnello mi conferma che il tentativo è già in atto: il 21 agosto sono passati sotto controllo della “resistenza” tre distretti nella provincia di Baghlan, a nord-ovest del Panjshir. È un primo passo. Come sempre, in Afghanistan, il successo finale dell’operazione dipenderà dall’atteggiamento delle forze regionali, in questo caso costituite soprattutto da tagichi, uzbechi e hazara, tradizionalmente ostili ai pashtun (e quindi ai talebani), ma anche poco inclini ad accettare l’autorità del giovane Massoud e soprattutto del vicepresidente Amrullah Saleh, rifugiatosi con alcuni ministri nel Panjshir, che molti considerano troppo compromesso con gli americani.


Giorni di grande incertezza, dunque. I talebani non hanno forze sufficienti a controllare l’intero territorio afgano. Non ancora. Se uzbechi, hazara e tagichi torneranno a unire le loro forze, la riapertura di un corridoio terrestre tra il Panjshir e le repubbliche dell’Asia Centrale si può considerare cosa fatta. Di fronte a una prospettiva del genere, una guerriglia a quel punto difficile, se non impossibile da soffocare, come nella seconda metà degli anni Novanta, è possibile che i vincitori di Ferragosto possano acconsentire alla richiesta di Massoud di tenere elezioni generali per formare un nuovo governo davvero “di unità nazionale”.

 

Ma la minaccia della resistenza che si sta organizzando attorno ai tagichi del Panjshir deve essere credibile. La comunità internazionale può fare ancora molto per aiutarli. Ad esempio, giocare una carta che sembrerebbe al tempo stesso la più semplice ed efficace, ma che stranamente (stranamente?) nessuno ha ancora messo sul tavolo del nuovo “Grande Gioco”: applicare il diritto, dunque ribadire con fermezza l’appoggio delle Nazioni Unite al vicepresidente Amrullah Saleh (che a norma dell’articolo 60 della Costituzione afghana sta esercitando dal Panjshir le funzioni di capo dello Stato supplente), e non “dialogare” con i talebani senza porre condizioni preliminari all’apertura della trattativa. Non per riaccendere la guerra civile, ma per costringere tutti a cercare un compromesso necessario. Forse è troppo tardi; troppi errori, troppo sangue, troppa disillusione. In questo caso si combatterà, anche se è ancora difficile capire chi sarà disposto ad appoggiare il fronte anti-talebano che inizia a costituirsi nel nord.


Torna alla mente una frase attribuita a Winston Churchill: «Si può contare sul fatto che gli americani finiscano sempre per fare la cosa giusta, dopo aver esaurito tutte le altre possibilità». Oggi l’Occidente può fare la cosa giusta. Riconoscere l’esistenza del presidente ad interim, che non ha abbandonato l’Afghanistan né la sua funzione costituzionale. Se i talebani vogliono essere considerati legittima parte in causa nella ricostruzione politica, economica e sociale del Paese, bisogna far loro capire che non devono pretendere venga semplicemente ratificata la loro vittoria militare. Anche perché potrebbero scoprire molto presto che non è solida e completa come sembra dopo l’incruenta “liberazione” di Kabul e la dissoluzione dell’esercito nazionale. La storia dell’Afghanistan ha un’altra dura lezione per tutti: qui le guerre si combattono oggi, ma si vincono domani.

Gastone Breccia è docente all’Università di Pavia ed Esperto di Storia militare antica