Fallita l’idea di esportare un sistema neoliberale, resta la consapevolezza dei diritti

Quei punti nel cielo, che compaiono sulla scia di un Boeing tracotante mentre precipitano impietosamente nel vuoto, resteranno nella storia un’immagine tremenda e indelebile. Non solo il simbolo di una fuga cinica e sconsiderata, ma anche il sigillo di una rappresaglia ignominiosa, di una rivalsa caparbia che la grande potenza ha cercato insistentemente per un ventennio. «America is back», aveva dichiarato Joe Biden dopo l’inquietante periodo del trumpismo. Oggi si può dire che quel «back» non sia altro che un «back home».


L’America torna a casa portando con sé un trofeo macabro a pochi giorni dall’anniversario dell’11 settembre, quando nel vuoto cadevano i corpi di coloro che erano rimasti imprigionati nelle torri gemelle. Quel trauma profondo, che avrebbe dovuto essere adeguatamente elaborato, provocò invece la overreaction, la risposta militare americana. La caduta di Kabul getta un’inquietante luce retrospettiva sulla «guerra al terrore», una singolare sfida a una tecnica di attentato, spesso ridotta a una caccia a fantasmi, e una guerra che non era più tale, senza nemici definiti, né fronti precisi, né tempi certi. Come una guerra al Male.

 

Il 7 ottobre 2001, al momento dell’invasione dell’Afghanistan, Bush promise un’interminabile azione riparatrice, secondo il motto della “guerra giusta” teorizzata da Michael Walzer, che ebbe perciò l’altisonante nome in codice di Infinite Justice, giustizia infinita, sostituito dal più mite Enduring Freedom, libertà duratura, rimpiazzato in seguito da un paio di sigle burocratiche. Con il pretesto del terrore fu allora dichiarato lo stato d’emergenza e venne sospesa in modo eclatante la democrazia.


Sarebbe una miope ingenuità credere che la fuga da Kabul rappresenti l’ultimo fallimentare capitolo delle guerre occidentali nel XXI secolo. Non è possibile prevederne ora le conseguenze. Ma già la guerra in Iraq del 2003, che ha minato la credibilità degli Usa e alimentato potentemente il complottismo per via di quelle «armi di distruzioni di massa» mai trovate, mostra quali possono essere gli effetti.

 

Contraddistinta da menzogne e atrocità peggiori, la guerra in Afghanistan rischia di far deflagrare l’Occidente stesso non solo sullo scacchiere geopolitico, ma anche e soprattutto nei propri valori.
Tutto si è disgregato in un soffio. D’un tratto sembra vanificato il grande sogno della civilizzazione e della democratizzazione. C’è chi parla di disfatta dell’Occidente. A parlare chiaro è il bilancio delle cifre. Canta vittoria l’industria bellica. Ma il fallimento è tutto di una politica che pochi, inascoltati, avevano già denunciato vent’anni fa.

 

Perché l’ipocrisia non ripaga e non si può contrabbandare a lungo di portare agli altri la libertà quando non si vuole in effetti che proteggersi, difendersi, cautelarsi da questi altri. Quel che, più nel male che nel bene, è stato compiuto in Afghanistan, dai militari ma perfino dalle Ong, è inficiato da quest’ambiguità di fondo. Dove finisce l’intervento umanitario e dove comincia il controllo bellico-poliziesco? Se quei programmi, che apparivano così promettenti e magnanimi, hanno avuto scarsa presa, come adesso sembra evidente, è perché sotto sotto erano guidati dal criterio della nostra sicurezza e non della loro democrazia.


Quel che oggi emerge è la fragilità delle istituzioni edificate, l’inconsistenza dello stato di diritto esportato a forza. L’operazione «libertà duratura» avrebbe dovuto tradursi in una democrazia costituzionale. Il castello di carta è crollato. A riprova che non si può imporre la libertà e non si può esportare la democrazia. L’ossimoro non potrebbe essere più palese. Fin qui ormai quasi tutti concordano. Ma l’esportazione della democrazia è una questione ben più profonda e mette allo scoperto un dissidio contemporaneo sul modo stesso di intendere la parola democrazia. Esce piegata da questa sconfitta la concezione neoliberale che, mentre riduce la democrazia a un sistema di governo, più ampio e tollerante di altri, la imbriglia alle redini istituzionali e a una serie di regole e procedure. Si tratterebbe allora di esportare semplicemente questa teoria politica insieme alle istituzioni confacenti e a una competente capacità di amministrare. Se il trapianto non riesce (come non è riuscito), si potrà sempre dire che è colpa degli altri: della loro subcultura, degli usi retrivi, del loro medioevo. Senonché la democrazia non è una manciata di istituzioni, non è un insieme di regole. A uscire incrinata dalla sconfitta è questa concezione normativo-procedurale della democrazia, buona per essere più o meno maldestramente esportata perché buona già per la governance neoliberale che si limita ad amministrare l’economia.


Ben più che una costituzione, un sistema politico-giuridico, la democrazia è una forma di vita. Non ne va solo della partecipazione dei cittadini, ma della loro esistenza e coesistenza. Non può essere irrigidita e disciplinata perché ha un fondo anarchico, come ricordano i teorici della democrazia radicale. Sarebbe inconcepibile senza il paradigma dell’esodo, di una liberazione che si ripete incessantemente. Una società democratica è il teatro di un’avventura non dominabile.

 

Perciò la democrazia è sempre stata guardata con sospetto, già da Platone che denuncia lo scandalo di una politica dove gli schiavi sono affrancati, gli stranieri diventano cittadini, le donne hanno la parità nel rapporto con gli uomini.


Si può intuire che il fondamentalismo veda nella democrazia (e nel suo fondo anarchico) il suo più acerrimo nemico. Ma proprio mentre su Kabul cala il velo dei talebani, c’è motivo per essere, malgrado tutto, ancora ottimisti. Perché quelle donne afghane, che andavano a viso scoperto, che frequentavano la scuola e all’università, che erano sempre più sicure e orgogliose di sé, sono allo stesso tempo le vittime predestinate, ma anche le possibili protagoniste di una resistenza. La democrazia non si è dissolta in poche regole, è rimasta introiettata in loro, nel loro modo di vivere, di pensare, di rapportarsi ad altri. Così come è rimasta in quell’avanguardia di afghani che, anche per ciò, sono in questo momento più a rischio.


Al tradimento e all’abbandono che avvertono comprensibilmente si può rispondere solo restando al loro fianco. Sarebbe questo il primo compito di coloro a cui sta a cuore la democrazia. Il che si traduce in molti modi: nel sostegno a chi deciderà di non lasciare il proprio paese e nell’accoglienza per chi non ha altro scampo che andar via. La democrazia non ha frontiere. Nulla apparirebbe oggi un crimine efferato come chiudere le porte ai rifugiati afghani. Da tempo l’Occidente è diviso e questa è l’ora dell’Europa, che non è una potenza come quelle emergenti, che non ha la forza economico-militare americana. Ma è la patria dei diritti umani, un privilegio che altri non hanno e un dovere in più. Perché i diritti umani sono il vessillo della democrazia. Questo ulteriore tradimento sarebbe imperdonabile e sancirebbe davvero il nostro tracollo.