L’analisi della storia americana Ruth Ben-Ghiat: «L’attacco fu uno di quegli eventi cataclismatici che spesso permettono ai governanti illiberali, autocratici, di fare cose che avrebbero voluto fare comunque. Il vero pericolo oggi? Il terrorismo interno»

«Vivevo nell’Upper West Side e avevo preso la metropolitana per andare downtown, alla Casa della cultura italiana della New York University. Improvvisamente le carrozze si sono fermate, c’è stato un annuncio, qualcuno aveva un cellulare che funzionava, una cosa strana. Ci hanno evacuato e siamo usciti: e il mondo era cambiato».
Ruth Ben-Ghiat l’11 settembre se lo ricorda come fosse ieri. Storica, critica culturale, studiosa del fascismo e dei leader autoritari (il suo ultimo libro “Strongmen. Mussolini to the Present” è un best seller della saggistica), nei giorni successivi all’attacco terroristico di al Qaeda «io stessa, come chiunque avesse un cognome mediorientale - Ben è come Bin - sono finita in una lista nera, per anni mi è stato difficile viaggiare».

 

Dopo vent’anni cosa pensa?
«È molto interessante pensare oggi all’11 settembre 2001, soprattutto alla luce di quanto è avvenuto in America negli ultimi cinque anni. Per me è stato un evento-shock, uno di quegli eventi cataclismatici che spesso permettono ai governanti illiberali, autocratici, di fare cose che avrebbero voluto fare comunque. Eventi che permettono a determinati individui di allargare ancora di più i confini anti-democratici».

È accaduto negli Stati Uniti?
«Io credo che questo possa accadere anche nelle democrazie, un esempio di autocrazia è quello di Erdogan dopo il golpe del 2016. L’11 settembre ha permesso al complesso militare-industriale dell’amministrazione Bush di mettere in piedi un intero sistema illiberale, che molti avrebbero voluto ma non avevano avuto l’occasione di iniziare».

Ad esempio?
«Lo stato di sorveglianza e la detenzione degli individui. O come le ho detto quello che è capitato a me stessa. Controlli speciali sugli individui all’inizio, poi è stato creato ad hoc il Dipartimento della sicurezza nazionale. Detenzione, sorveglianza, poi effetti a lungo termine molto interessanti come la guerra in Iraq, dove abbiamo assistito alla distruzione della verità e alla persecuzione della stampa. Dopo il Watergate, l’Iraq è stato il primo esempio di manipolazione dei media e di fabbricazione di bugie a livello statale. L’11 settembre è stato l’evento shock che ha dato il via a questi enormi cambiamenti di politica interna ed estera che, in un certo senso, sono stati una sorta di preparazione per quello che è successo più recentemente».

Si riferisce agli anni di Trump?
«Non solo. Trump è un autoritario, nessun presidente prima di lui lo è mai stato in questo modo. Ma alcune cose nascono già nel 2001. La clientela e i profittatori, in un certo senso, sono il complesso militare industriale, gli appaltatori, l’industria della difesa. La guerra fredda era finita, l’America aveva l’esercito più potente al mondo, possiamo dire che per venti anni c’è stata una sorta di crisi per capire cosa fare con questo potere militare, chi fosse il nemico. Il ventennio che è iniziato con la guerra in Afghanistan è stato in un certo senso di ripensamento, per capire quale potesse e possa essere il ruolo dell’America nel mondo».

Biden ha annunciato il ritiro dall’Afghanistan proprio per il prossimo 11 settembre. Si chiude questo ventennio?
«Il ritiro vuol dire ammettere che questa guerra è stata in un certo senso un fallimento. È stata una “forever war”, una guerra senza fine, che alla fine è diventata sterile».

Si può dire che Trump è, anche, una conseguenza dell’11 settembre?
«No. Non è stato una conseguenza diretta perché ci sono state molte altre cose in mezzo, ad esempio l’ascesa del Tea Party, che ha avuto solo marginalmente a che fare con l’attentato. Tuttavia, ciò che piace agli uomini forti, autoritari, tanto per citare il mio libro, ciò che sanno fare è sfruttare la situazione che c’è e volgerla a scopi illiberali. Possiamo dire che lo stato di detenzione e di sorveglianza che è seguito all’attentato è iniziato con Bush. Trump ha semplicemente capitalizzato su quello che già c’era, ha capitalizzato questi impulsi illiberali che sono fioriti dopo l’11 settembre. Ma non c’è un collegamento diretto».

C’è chi lo accusa di una sorta di tentato golpe. Lei che ne pensa?
«Penso che ci abbia provato, ma la cosa molto interessante negli anni in cui Trump è stato alla Casa Bianca è che non ha avuto successo. Non ha avuto successo nell’usare l’esercito per una svolta autoritaria, per metterlo contro la popolazione. Ci ha provato. E ci sono cose ancora in corso che mi preoccupano molto nella sfera civile militare, ma è un altra questione, perché gli Stati Uniti sono stati lo sponsor principale di colpi di Stato e della guerra psicologica».

Trump è stato un presidente autoritario?
«Trump e alcune delle persone a lui più vicine, Steve Bannon ad esempio, lo sono, miravano certamente ad avere più potere e meno controlli. L’autoritarismo ha sempre un aspetto diverso. E se io sono ancora forse l’ultima persona che non dice che Trump è fascismo, lo faccio perché credo che dargli del fascista sia fuorviante. È autoritario? Sicuro, al cento per cento. Ma non lo definisco fascista comunque: è un’altra questione, stava cercando di avere un governo che fosse autoritario, che lo proteggesse sul piano personale».

Gli anticorpi contro l’autoritarismo hanno funzionato?
«La domanda da farsi è: gli Stati Uniti potrebbero diventare più simili a quanto voleva Trump? Ci sono diverse persone che credono ancora che l’autoritarismo sia utile al capitalismo e potrebbero citare la Cina, ma questo è un po’ un mito. Io penso che gli anticorpi ci siano, c’è stato un grande contraccolpo, come quello che abbiamo visto nelle elezioni del novembre scorso. Trump è stato cacciato via col voto, ed è molto insolito che un popolo interrompa un processo autocratico».

Libertà e sicurezza. Oggi l’America è meno libera e più sicura?
«Sono una storica e da un punto di vista storico lo è. Pensiamo anche a quanto succede oggi, con le risposte alla pandemia. Quando gli Stati implementano misure di emergenza, stati di eccezione, diventa tutto molto difficile. Le cose accadono e il governo si espande e le restrizioni si espandono sulle libertà. E di solito nella storia, non si torna mai indietro come prima. Anche se sei ancora in una democrazia e lo stato di emergenza ufficiale finisce, il governo con più poteri rimane. Le maggiori restrizioni alla libertà rimangono».

Esportare la democrazia è un’idea giusta o sbagliata?
«Gli Stati Uniti durante la guerra fredda hanno dato una mano ad abbattere democrazie ma hanno anche una storia, più lunga, di portare la democrazia. Ho scritto molto nel mio libro sul Cile, perché lì gli Stati Uniti hanno aiutato il dittatore ad arrivare a prendere il potere ma hanno anche enormemente aiutato il dittatore ad andarsene negli anni Ottanta, sostenendo e finanziando la mobilitazione degli elettori al plebiscito. Poi ci sono interventi in teoria giusti ma che alla fine si rivelano sbagliati, la Libia in questo è un buon esempio. Nel cambio di regime a Tripoli ci sono stati molti attori, non sono solo gli Stati Uniti. C’era da agire di concerto con la Nato e tutto il resto. Oppure in Iraq, il punto non era realmente portare la democrazia, la questione principale era il petrolio, il profitto, i militari Usa vicini al nemico Iran».

Lo ha sostenuto anche Trump.
«Come sempre Trump è stato molto schietto. E a volte dice cose, quando non mente spudoratamente, che altri non dicono. Ha detto che la guerra in Iraq era per ottenere il petrolio e che non ne hanno ottenuto abbastanza. Avrebbero dovuto ottenerne di più. Quindi, se il cambio di regime non riguarda davvero la democrazia ma un profitto, allora non funzionerà perché c’è malafede».

Il terrorismo è ancora una minaccia per gli Usa?
«La minaccia terroristica per gli Stati Uniti è interna. E questi sono i veri terroristi di cui nessuno voleva occuparsi, non sono terroristi islamici. Sono bianchi, prevalentemente bianchi, cristiani americani. Terroristi americani e militanti dell’estrema destra. Il terrorismo islamico, quello che era attivo prima dell’11 settembre non è una minaccia per gli Stati Uniti. E infatti l’amministrazione Trump si è occupata, come regime autocratico, di fare accordi con altri autocrati. Così i finanziatori, i veri finanziatori dell’11 settembre, i sauditi, hanno tratto profitto durante l’amministrazione Trump. Quel tipo di terrorismo oggi non è una minaccia, oggi se parliamo di violenza e di qualsiasi definizione di terrorista dovremmo concentrarci sul terrorismo interno americano».