Opinione
I tre tenori del centrodestra cantano sempre la stessa solfa
Nell’eterna reiterazione di messaggi e slogan, il Paese premia la politica scarna. Ma l’elettorato è felice, per adesso
Assertivo, compiaciuto, pietrificato. Il centrodestra è un monumento, eretto a se stesso e ai suoi numeri elettorali. Come ogni monumento che si rispetti è imponente e retorico, scultoreo e immobile. Edificata sulla collina dei suoi consensi popolari, che non sembra destinata a smottare, la ex Casa delle libertà procede per certezze e ripetizioni mai troppo faticose. Le manca in compenso ogni capacità, ma anche ogni volontà, di aggiornare la propria agenda, il proprio lessico, i propri argomenti.
Mentre la sinistra si dimena, si contorce, si reinventa ogni giorno, anche quando non ce ne sarebbe alcun bisogno, la destra si fa forte della propria attitudine a ripetersi. Cambiano le circostanze, questo sì. Si affermano nuovi leader (prima Salvini, poi Meloni), declina l’antico patriarca, si fanno largo qua e là figure meno segnate dal tempo. I suoi partiti vanno e vengono tra governo e opposizione, e a quel bivio le divisioni sembrano dar luogo a controversie, svolte e trasformazioni di non poco conto (vedi, da ultimo, la nascita del governo Draghi). Ma poi, quasi inesorabilmente, la destra ritrova la strada che le è più consueta e che le appare più comoda: quella della eterna reiterazione e della estrema semplificazione di sé e del suo messaggio. Le sfumature non le appartengono, i dubbi sembrano annoiarla.
Per dire. La questione del suo assetto (un partito o tre, la federazione, il coordinamento) viene affrontata ormai quasi ogni giorno e utilizzata a mo’ di predellino, a giro, da ognuno dei suoi leader. Ma è piuttosto chiaro che non se ne farà nulla per un bel po’ di tempo. Mentre risulta oscuro cosa significhino tutte queste amenità. E cioè se dietro un assetto o l’altro si nasconda una o l’altra idea del paese e magari perfino un’idea nuova, non si sa mai. Ora, nessuno si può scandalizzare che sia in corso una disputa sulla leadership. Ma quella disputa dovrebbe almeno alludere a qualche progetto, qualche trasformazione, una minima evoluzione di sé. E invece appare solo come l’esempio della muscolarità dei suoi condottieri. L’intendenza, al solito, è chiamata a seguire, possibilmente applaudendo.
Nelle seconde e terze file non spira un alito di brezza. Non sembra esserci nessuna disputa, né l’ambizione di introdurre argomenti e sensibilità che non siano quelli più canonici e sperimentati. Come se la dialettica politica fosse del tutto inappropriata. La sfida al primato dei rispettivi leader appare più che mai disdicevole, e anche l’evocazione di punti di vista almeno un po’ eterodossi suona come un fuor d’opera. Sarà pure un valore, la disciplina. Ma certi suoi eccessi finiscono per svalutare innanzitutto se stessi e la propria parte. Perfino quando la si pratica con le più nobili intenzioni.
Certo alcune parole d’ordine restano lì, come per offrire un punto fermo. Più sicurezza, meno tasse. Eppure vengono recitate stancamente, ribadite come un mantra, senza che mai da quelle parti si levi una voce che segnali altre priorità, o magari anche solo altri modi per realizzare quelle più canoniche. L’eresia non è contemplata, sembra sempre l’anticamera dello scisma. Il sentimento d’ordine costringe all’obbedienza, mentre solo i tre condottieri possono dare libero sfogo a una certa propensione al litigio. Salvo negare il giorno dopo i loro singoli, reciproci pensieri del giorno prima. Nel silenzio deferente di tutti gli altri.
Insomma, da quelle parti nessuno può essere irrispettoso del quartier generale. Tantomeno fantasticare di bombardarlo.
Si dirà che la sinistra (non parliamo del centro) vive di troppe sfumature e ha fatto dei capelli spaccati in quattro, e magari in quarantaquattro, la sua dubbia virtù. Ma quel tanto, tanto, di disordine che si respira da quella parte non giustifica il troppo ordine che regna dalla parte opposta. Dove l’ortodossia celebra il suo trionfo ma la fantasia sembra troppo spesso lasciata fuori dalla porta.
Ora, sia chiaro, il vento spira a destra, e questo va riconosciuto senza troppi giri di parole. Così è in Europa, a quanto pare. E così è da noi, dove la sinistra non è mai stata maggioritaria e dove le tendenze più conservatrici che la Prima Repubblica aveva tenuto a bada ora sembrano invece dispiegarsi in tutta la loro possenza. Dunque, i tre tenori di quell’orchestra possono intonare gli inni della loro tradizione e godersi gli applausi (e magari i voti) del pubblico che tifa per loro. Ma forse proprio per questo dovrebbero anche aprirsi a nuovi argomenti, ospitare dibattiti inediti, mettersi in questione quel che tanto che basta a incuriosire e suscitare sorpresa tra gli increduli. E invece sembrano avvolti tutti quanti nella confortevole coperta di Linus della loro ortodossia, senza che nessuno metta mai in discussione i loro assiomi e le loro gerarchie.
Al momento, tutto questo non fa perdere voti, a quanto pare. Tutt’altro. Anzi, sembra quasi accordarsi con lo spirito di un Paese che è stanco della troppa politica e ne vorrebbe a questo punto dosi meno massicce da inoculare quotidianamente. In fondo, lo stesso apprezzamento per Draghi, sembra sottintendere il bisogno collettivo di ridurre la politica alla sua essenzialità, al suo buon funzionamento, senza i troppi arzigogoli che fanno la felicità degli addetti ai lavori. Dunque, che la destra non sia troppo problematica, che non faccia autocoscienza, che non vada in cerca di inedite fantasie, che ricalchi con studiata monotonia i propri argomenti, tutto questo ha un suo perché. E magari propizia perfino un vantaggio per chi aderisce a questo codice.
Resta il fatto, però, che in un Paese come il nostro a lungo andare una politica così scarna, così ovvia, quasi rattrappita nella sua essenzialità, appare destinata a una fortuna piuttosto effimera. E che da una forza, o un insieme di forze, che si propone come l’Italia prossima ventura sarebbe lecito aspettarsi qualcosa di più che non la celebrazione di se stessa.
La destra, per sua natura, è depositaria di un’idea di sicurezza. Dunque, è piuttosto ovvio che essa celebri e reiteri questa parola d’ordine adattandola ai suoi leader e ai suoi programmi. Ed è perfino ovvio che all’occorrenza se ne faccia un merito al cospetto di una certa confusione che magari regna altrove. Ma è altrettanto vero che un paese maledettamente complicato e felicemente pluralista come è l’Italia sopporta a fatica questa reductio ad unum di cui la destra sembra fare la propria bandiera. E per quanto i numeri avvalorino gli schemi di cui sopra, resta il fatto che numeri e schemi sono per loro natura un po’ ballerini.
Per il momento resta da segnalare quell’alto tasso di ripetitività, e quasi di monotonia, nei messaggi che risuonano da quella parte. Come se il loro modello fosse più la granitica certezza ideologica che animava la sinistra di una volta piuttosto che la flessibilità a volte fin troppo disinvolta che spiega e magari illustra il quasi cinquantennio di predominio democristiano.
Ma, si sa, è il nemico apparentemente più lontano quello che ti guida nel labirinto che ancora non conosci.