Mentre il governo italiano blocca le Ong con la burocrazia, dalla Tunisia alla Libia la dignità umana viene uccisa nel silenzio della comunità

È il 30 giugno, i corpi dell’ultimo naufragio giacciono sul fondale mentre una ragazza resta con gli occhi chiusi al porto Favarolo. È una loro compagna di viaggio. Il mediatore non capisce il motivo. Lei i suoi occhi proprio non li vuole aprire. Non li apre mentre le parlano, non li apre se sente altre voci. Due fessure serrate, mentre il caos scorre intorno. Alla fine il mediatore le dice: «Puoi aprire gli occhi, sei arrivata in Italia». Lei, una dei 49 sopravvissuti, finalmente li apre. Un’altra arriva in arresto cardiaco. L’elisoccorso si appoggia sull’isola e riparte immediatamente alla volta di Palermo. Dopo una settimana in terapia intensiva, anche lei rientrerà nel conteggio dei 49.


Da agosto 2019 le Ong stentano a partire, nonostante le persone continuino a morire e chi non muore in mare è in un centro di detenzione, per l’unica colpa di volere una vita degna. In pochissimi riescono ad arrivare. La politica che decide sulla morte delle persone è cambiata. Prima l’urlato “porti chiusi” dell’allora ministro degli interni Matteo Salvini, che da slogan da campagna elettorale si è trasformato poi in blocchi delle navi soccorso lunghi diversi giorni. Poi l’attuale ministra Luciana Lamorgese che con il suo passato da prefetta conosce bene l’insidia e le tecniche della burocrazia. Ed è così che i porti rimangono aperti, ma le ong sono comunque bloccate a seguito dei continui fermi amministrativi.

Dal 2019 a oggi sono 13 i provvedimenti che hanno fermato alle banchine 8 diverse navi di soccorso, per un totale di quasi 1200 giorni di fermo nave. Nessun fermo era mai stato disposto nel periodo 2014-2019, quando la presenza delle navi delle ong era assai più sistematica, fino a un picco di 13 navi contemporaneamente operative nel mar Mediterraneo. Attualmente sono ferme in porto la Sea Watch 4 e la Sea Eye 4. La Geo Barents pronta a ripartire dopo un mese.
Marco Bertotto, “responsabile humanitarian affairs” di Medici Senza Frontiere, è in preda a lunghe chiamate mentre organizza la ripartenza della Geo Barents: «Le ong riescono a prendere il mare a intermittenza, quando riescono a respingere gli attacchi del governo. Operano in una situazione di alternanza facendo lunghi blocchi. Questa è di fatto la situazione attuale». Si ferma un attimo e riparte: «In mare non esiste più un’attività di coordinamento con le autorità competenti. Gli interventi avvengono grazie ad Alarm Phone o agli aerei delle organizzazioni non governative. Spesso dobbiamo pregare per attraccare in porto».


C’è chi arriva dalla Tunisia, ormai devastata dal virus e da una situazione politica instabile, dove il presidente Saied ha rimosso il premier e sospeso il Parlamento. Chi si trova nei centri di detenzione in Libia e tenta la fuga. Tutti sanno, tutti tacciono. Ragazzi giovani, donne, uomini. Tutti essere umani. I racconti che arrivano dai centri di detenzione, raccolti nei colloqui da Msf, sembrano un processo. Testimonianze che non hanno un giudice, né una corte né inorridiscono l’opinione pubblica. Testimonianze che forse, un giorno, raccoglierà la Storia.

C’è la storia di un ragazzo, 19 anni, ghanese, che attualmente si trova in un centro di detenzione in Libia: «Tre giorni fa sono arrivate nuove persone dal mare. Hanno iniziato a fare rumore, bussando alla porta per chiedere alle guardie perché fossero qui, cosa sarebbe successo loro. Noi, i vecchi, abbiamo detto loro di stare zitti, perché sappiamo cosa succede quando facciamo rumore. Ma era troppo tardi, le guardie sono entrate nella cella e hanno picchiato le prime persone che sono riuscite ad afferrare. A loro non interessa trovare i responsabili, ci picchiano tutti ogni volta che succede qualcosa. Una delle guardie mi ha dato un pugno sulla testa e sul petto. Avevo sangue che usciva dall’orecchio e ancora adesso non riesco a sentire molto bene quando le persone parlano. So anche che nessuno può aiutarci. Alcune organizzazioni vengono e fanno promesse, ma non succede nulla. Eppure non mi arrendo. Ho deciso che non voglio morire».

Un altro ragazzo di anni ne ha 16 e viene dal Mali: «Le guardie ci danno un piatto pieno di riso, lo mettono per terra e da quel piatto fanno mangiare cinque persone contemporaneamente. Io riesco a mangiare solo lentamente perché ho problemi con la gola e con lo stomaco. Quindi a volte non c’è più cibo per me perché gli altri mangiano tutto. Altre volte, quando rallento le cose - mentre loro vogliono che finiamo l’intero piatto in un paio di minuti - le guardie iniziano a colpirmi, solo perché sto cercando di mangiare, ma lentamente».


Nella società dei paradossi, dove le piazze si scatenano per dire no al Green pass, dall’altra parte del Mediterraneo la dignità umana viene uccisa nel silenzio della comunità. Tutta. C’è un gruppo di cinque ragazze camerunensi, tra i 18 e i 35 anni, tutte detenute. Una di loro racconta: «Prima ci hanno portato in una prigione dove ci hanno separato dagli uomini, dai nostri mariti e fratelli. Hanno portato via anche mio figlio quindicenne, non so cosa gli sia successo. Poi le guardie hanno portato le donne e i bambini qui, a Shara Al Zawiya Dc. Quando siamo arrivati abbiamo ricevuto assistenza medica da Medici senza frontiere, ma quando il loro team se ne è andato, le guardie ci hanno perquisito e ci hanno portato via i telefoni. Tutte le guardie sono maschi, e ci hanno afferrato il seno e hanno messo le mani contro il nostro pube e le natiche. Hanno anche toccato le parti intime dei bambini per assicurarsi che nulla fosse nascosto nelle loro mutande».

La storia di Kamil, raccontata da un suo compagno di traversata, sopravvissuto al naufragio e soccorso dalla nave Geo Barents il 12 giugno 2021: «Era già notte, quando ho visto un mio amico seduto sul bordo della barca. La barca era sovraccarica, non c’era spazio per nessuno. Lui stava dormendo, ma subito dopo essersi svegliato, si è alzato in piedi. In quel momento è caduto in acqua. Abbiamo provato a cercarlo. Siamo tornati indietro e l’abbiamo cercato, una volta, due volte, tre volte. L’abbiamo chiamato: Kamil! Kamil! Kamil! Kamil! Ma non abbiamo sentito più nulla. Non abbiamo visto più nulla perché era notte. Era notte. Così l’abbiamo lasciato andare. L’abbiamo lasciato andare perché non potevamo fare nulla per lui, non potevamo aiutarlo».


Sopravvivono, tentano la fuga, abbandonano gli amici in mare, la maggior parte viene riportata indietro. Un 23enne del Sudan che ha trascorso un mese in un centro di detenzione per migranti a Beni Walid, Libia: «Abbiamo visto un aereo sopra di noi, poi due. Uno bianco, al mattino e uno grigio, la sera. Subito dopo, una barca del governo libico che ci ha riportati indietro. Siamo stati riportati in un campo, non so dove fossimo, forse Tripoli. Ci stavano picchiando. Tutti. Eravamo in una stanza al buio e non ci era permesso di alzare la testa, altrimenti ci picchiavano ancora di più. Ci hanno picchiato la sera. Poi ci hanno portato in una stanza più piccola dove abbiamo dovuto sederci per due giorni. Dopo, ci hanno portato in macchina in un posto più grande ma comunque pieno. Niente finestre, niente. Ti colpivano con tutto quello che trovavano. Sulla testa, sulle braccia, sulle gambe. Le persone sedute accanto a me avevano gambe, braccia e teste rotte a causa delle botte. Dopo 19 giorni al buio, ho chiesto alle guardie di liberarmi. La mia gamba mi faceva male perché era infetta. Mi hanno detto che se non avessi pagato, sarei rimasto lì e sarei morto. La mia famiglia in Sudan è riuscita a mandarmi dei soldi. Quando ero fuori, non sapevo dove andare. Ho soggiornato in casa di un’altra persona sudanese in attesa che la mia famiglia mi mandasse più soldi. A Zuwara, quel venerdì, quando siamo entrati in mare, eravamo in cento».


Alcuni riescono a partire e, se non muoiono in mare, arrivano in Italia. Altri vengono ripresi dalla Guardia costiera libica con il consenso dell’Italia, che per regolare il flusso migratorio preferisce le navi e i militari libici ai volontari delle ong. Alida Serracchieri, responsabile sanitario di Medici Senza Frontiere a Lampedusa, ha appena finito il turno in banchina insieme a Nathalie Leiba, psicologa. Entrambe prestano il primo soccorso ai migranti: «Le condizioni di quando arrivano», spiega, «dipendono da quanti giorni sono stati in mare. Tendenzialmente le persone che passano tre o quattro giorni in un gommone sono estremamente provate. Poi bisogna anche aggiungere che se vengono dalla rotta libica molto spesso sono vittime di torture e violenza sessuale». Continua Nathalie Leiba: «Appena sbarcati non capiscono dove sono, alcuni credono di essere in Tunisia. Siamo costretti a dare loro una cartina per orientarsi. Poi chiedono di contattare la famiglia di origine. Alcuni fanno dei viaggi lunghissimi e non sentono le famiglie per anni». Il racconto continua, mentre il bel tempo e il mare calmo aiutano gli sbarchi a Lampedusa.

 

«Spesso capita che non sia il primo viaggio, molti sono stati portati indietro dalla Guardia costiera libica. I racconti sono sempre brutali», dice Nathalie Leiba. «Ricordo una donna siriana riportata indietro tre volte e messa in tre centri di detenzione diversi. Lei ha raccontato che due ore dopo il suo ingresso in uno di questi centri ha visto una scena brutale: colpivano un uomo, lui ha reagito e allora sono arrivate trenta guardie e lo hanno massacrato. Gli hanno spaccato il cranio. Una delle guardie le ha chiesto se ci fossero degli uomini con lei e le ha chiesto chi fossero, poi è andata a picchiarli tutti e avrebbe continuato fino a quando lei non avesse fatto sesso con lui». Le testimonianze si accavallano, i corpi naufragano nel Mar Mediterraneo, l’Italia placidamente blocca le ong con fermi amministrativi, mentre in Libia continua a scorrere il tempo dell’aberrazione.