Il reportage vietnamita di un celebre romanziere era interessante ma inventato. Il giornalismo, a differenza della letteratura, deve rispettare i fatti

Accadde in Vietnam, tre anni prima che gli americani si ritirassero dalla guerra. Mi ha riportato con la memoria a quell’episodio un capitolo di “Contro l’impegno” (Rizzoli) di Walter Siti. Uno degli argomenti dei saggi del professore dotto ed educato, raccolti nel volume, ha come titolo “Divagazioni su giornalismo e letteratura”. E vi si chiede, con garbata ironia, non con sarcasmo, se la letteratura non sia spesso una fake news. Il professor Siti rispolvera - il più che rispolverato - problema del rapporto tra la letteratura e la verità fissato in Occidente dalla distinzione aristotelica tra storico e poeta: lo storico racconta ciò che è accaduto, il poeta ciò che potrebbe accadere. Manzoni resta secoli dopo su questa pista parlando di “vero positivo” e “vero poetico”.


Ma poi la cronaca ha sostituito la storia. Per Walter Siti la nostra epoca è più attenta alla velocità che alla qualità, alla trasversalità che alla linearità, alla mobilità di superfice che alla profondità. E cita Alessandro Baricco (in “The Game”) affermando che oggi si preferisce giudicare direttamente piuttosto che farsi spiegare le cose dagli specialisti e si dà per scontato che il posto dove accorre più gente sia quello migliore. La conclusione è che la tecnologia ci ha portato a questa situazione. Il mondo digitale «è troppo instabile, dinamico e aperto per essere gradito a un animale sedentario, lento e solenne come la verità». Lo dice Baricco. Non del tutto a torto.

Riacciuffo il discorso dove l’ho cominciato. Uno scrittore noto per i suoi romanzi e racconti, si trasforma in inviato di guerra e arriva in Vietnam. Siamo nei primissimi mesi dei Settanta, del secolo scorso. Poi gli americani non ci saranno più. La corrispondenza del nostro inviato racconta di una pattuglia con un plotone di soldati americani, alla quale ha partecipato come giornalista. Il resoconto occupa una pagina intera del suo giornale e ha un richiamo in prima. Il nostro inviato speciale ha più di quarant’anni, età che lo esclude da operazioni faticose oltre che rischiose, non ha mai fatto il soldato e non conosce la lingua parlata dai suoi compagni d’avventura. Non parla l’americano e ignora quindi anche il gergo dei soldati. Comunicare con loro non è semplice. Per fortuna uno parla spagnolo. Letto sul posto, a Saigon, il giornale arrivato dall’Italia una settimana dopo, l’articolo non è credibile. A quell’epoca i soldati americani si spostavano in elicottero, sorvolavano le risaie e scendevano a terra quando individuavano zone sospette o dove si scorgevano pattuglie viet minh. Sempre se si ritenevano in grado di affrontarle. Un giornalista straniero più che quarantenne non veniva comunque adottato per un’azione che chiedeva una capacità fisica eccezionale. Senza contare appunto il rischio. La corrispondenza suscitò qualche commento sgradevole, ma soprattutto ironia, tra i clienti dell’Hotel Continental di Saigon, dove alloggiavano per lo più i giornalisti stranieri. Quell’articolo è poi stato stampato in una raccolta letteraria dell’inviato speciale ritornato pacifico cittadino italiano. Non più presentato come un racconto di guerra vissuto personalmente. Lo scritto non era male. Ma restava una fake news.

È inutile, persino ridicolo, ricordare che il giornalismo è ben lontano dall’essere una scienza esatta. A volte qualcuno pretende che lo sia, colto da una megalomania dovuta al fatto che è in effetti uno degli elementi essenziali della democrazia. È come un artigianato che ha il compito preciso di fabbricare cose utili e può accadere che il suo prodotto assuma un valore artistico. Ma è, appunto, molto raro. Ernest Hemingway racconta che negli anni tra le due guerre, quando era un giovane cronista affascinato da Parigi, dove viveva a lungo, passava ore nei caffè affacciati sulla Senna a correggere il suo stile, troppo giornalistico per le sue ambizioni di romanziere. Ripuliva la sua scrittura. In “Festa Mobile”, l’autobiografia pubblicata postuma, racconta quei tempi in cui gli capitava di frequentare Gertrude Stein, Ezra Pound, Francis Scott Fitzgerald, John Dos Passos, James Joyce. Alcuni appartenevano alla “Generazione perduta”, come diceva Hemingway attribuendo la battuta a Gertrude Stein. Non penso che l’improvvisato inviato italiano in Vietnam avesse letto “Festa mobile”.