Le maniere forti della Francia che blocca chi arriva dall’Africa o dai Balcani. E l’indifferenza delle istituzioni italiane. Nella cittadina ligure le associazioni di volontari fanno quello che possono. E tra i profughi aumentano alcolismo e depressione

È «tornata», dicono della frontiera che li divide dalla Francia i liguri di Ventimiglia. Nell’anno in cui la pandemia ha fatto riscoprire confini e distanze, questo angolo estremo di Paese ha ricominciato a fare da terra di mezzo, periferia di passaggio dove si incontrano e si confondono, spesso per perdersi, le diverse rotte migranti che attraversano l’Italia. Una frontiera scomparsa che alle migliaia di persone che ogni anno cercano di oltrepassarla appare prima come l’anticamera delle rispettive terre promesse, poi come un purgatorio da dimenticare, e oggi più che mai è tornata rappresentazione plastica del cortocircuito europeo sulla gestione dei flussi migratori.

Sugli scogli diventati simbolo già nel 2015, l’anno della crisi dei rifugiati nel mondo, quando tra il Mar Ligure e il muro del confine francese si fermarono per mesi i sogni di migliaia di migranti, quello dell’accoglienza è infatti un problema di ritorno. In città sono riesplosi i numeri di transiti e respingimenti, le strade sono tornate dormitorio, e il simbolo perfetto dell’impotenza della politica sul tema è la mancanza di un centro istituzionale che accolga e sostenga le persone in transito. In uno degli “imbuti d’Europa”, da quasi un anno, a garantire un presidio di accoglienza sono solo ed esclusivamente reti informali di associazioni solidali, parrocchie, ong. Un «fronte di resistenza» - si ammette tra volontari - che dal basso «colma il vuoto come può, anche per chi dovrebbe fare ma non fa, o anzi punta a fare tutt’altro».

Terra di transito per storia e vocazione, lontana una manciata di chilometri dalla francese Mentone e cento volte tanto da Roma, a raccontare il confine ritrovato di Ventimiglia di questi mesi sono per prime le storie di chi prova a oltrepassarlo, ma anche i numeri di commissariati, prefetture, ong. Nell’arco dell’ultimo anno, dal doppio valico di Ponte San Ludovico e Ponte San Luigi la polizia francese ha respinto oltre 21mila migranti. Uomini, donne, famiglie, spesso - e illegalmente, fanno notare quasi ogni giorno i legali solidali impegnati sul campo - minori non accompagnati di tutte le età. Ben più dei 17mila del 2019, poco più dei 20mila del 2018, poco meno solo rispetto ai 23.800 del 2017. Più del doppio rispetto a quanto non sia successo sul confine dell’altra via di fuga dall’Italia, i sentieri della Val di Susa, tra Oulx, Bardonecchia, Claviere.

Conteggi ancora più significativi, se per spiegarne la portata si considerano anche i tre mesi di blocco totale dei transiti di inizio 2020, quando il lockdown deciso per contrastare la diffusione del Covid ha di fatto azzerato i movimenti tra Italia e Francia. Facendoli deflagrare, con tutte le conseguenze del caso, una volta ripartito il Paese. E rifacendo della città - si legge nell’ultimo monitoraggio di Medici senza frontiere - «un’emergenza grave, quanto sottovalutata».

Punto d’arrivo per entrambe le principali rotte migranti, quella che viene dai Balcani (da cui arrivano rifugiati afgani, pakistani, siriani, bengalesi) e soprattutto quella che sale dall’Africa subsahariana, via Libia e Lampedusa (sulla quale viaggiano soprattutto sudanesi, ghanesi, somali, gambiani, ma anche tunisini e marocchini), oggi in città gli effetti della chiusura dei confini sono tornati visibili «in modo preoccupante», è l’allarme di Claudia Lodesani, presidente di Msf Italia. Moltiplicati dall’emergenza Covid i controlli di polizia su treni e sentieri di valico, i migranti in transito «diventano stanziali anche più del doppio del tempo rispetto a prima, anche tre, quattro mesi».

Dei circa 300 transitanti che in media soggiornano attualmente in città, una grandissima parte ha già provato una, due, tre volte il passaggio nell’Europa che conta. E finché non riescono a passare in Francia, sono costretti a dormire per strada, sulla spiaggia, nei fabbricati inutilizzati lungo la ferrovia. «In alloggi improvvisati senza acqua, servizi igienici e riscaldamento» - spiegano in Msf - dove diventano numeri anche storie come quella di Said, un 27enne somalo in viaggio da 7 anni, in fuga da un paese che non accetta la sua omosessualità, rimasto bloccato a Ventimiglia e «caduto» - dice di sé - nell’alcolismo.

«Uno tra i tanti», continuano dall’associazione solidale 20k, «che dopo viaggi infiniti arrivano all’ostacolo che tra tutti parrebbe il più facile da superare, e qui invece cadono in trappola, una pausa forzata dove chi non riesce subito a continuare il proprio cammino rischia di finire in spirali di disagio, nell’alcol, tra le braccia di passeur e altri traffici».

Una dannazione elevata all’ennesima potenza, se possibile, da quando la città non ha più un centro istituzionale per gestire i flussi in arrivo sul confine. Sgomberato già dalla scorsa amministrazione comunale (e sindaco di centrosinistra) il campo autogestito nato lungo il fiume Roja, il centro di accoglienza che la Croce Rossa gestiva in città per conto della Prefettura è stato smantellato definitivamente a luglio, senza che da allora sia stata garantita nessuna alternativa. Il progetto di un nuovo centro di transito si è bloccato nelle lotte tra comuni della provincia, nessuno dei quali vuole offrire spazi per ospitarlo, e i silenzi della Regione.

Il sindaco forzista di Ventimiglia Gaetano Scullino ha prima chiesto soluzioni alternative per “spostare” il problema («più controlli di polizia alle stazioni e servizi pullman per riportare indietro in altre regioni le persone che arrivano fin qua», la sua ricetta), poi concordato un protocollo di intesa con Ministero dell’Interno e Prefettura per lo studio di «qualcosa di diverso» di cui, però, non si vedono ancora né bandi di gara, né finanziamenti.

Un centro di identificazione «che ovviamente accetterei solo fuori dai confini di una città che ha già fatto abbondantemente la sua parte»: spiega anche così lo stallo di questi mesi. Un limbo dove «a fare rumore, e frustrare profondamente», riassume Manuela Van Zonneveld, origini olandesi e residenza francese, volontaria della Caritas, «è una totale mancanza dello Stato proprio dove servirebbe di più».

Le conseguenze delle alzate di spalle della politica locale, del resto, non sono solo pura questione di principio, materia da teoria del diritto internazionale. «La mancanza di una struttura ufficiale adibita all’accoglienza va di pari passo con quella di presidi di assistenza sanitaria, o psicologica, o di genere», spiega la giovane attivista Valentina Lomaglio, di 20k. Non c’è un ambulatorio medico, scarseggiano «i servizi socio-sanitari di prossimità e gli interventi di mediazione culturale», si legge anche nella lettera scritta alle autorità locali da Msf, per chiedere l’allestimento di un nuovo centro.

«Sono abbandonate a loro stesse madri e giovani donne, sono sospesi servizi essenziali come le docce o la mensa». Diritti dovuti eppure “dimenticati”, proprio dove, secondo Msf, «indipendentemente dal loro status legale è dovere garantire una dignitosa accoglienza di breve periodo a persone provate dal percorso migratorio e da traumi non elaborati».

Un «presidio territoriale di prima accoglienza, basterebbe quello», sintetizza Massimo D’Eusebio, consigliere comunale d’opposizione, «una minima forma di bilanciamento fra i diritti umani basilari delle persone in transito e il diritto alla salute pubblica. Necessaria ora e fondamentale per quando, in aprile inoltrato, i transiti triplicheranno».

Già raddoppiati nella prima settimana di primavera gli arrivi in città, e caduti nel vuoto gli appelli per l’apertura di un nuovo centro di transito, a rappresentare la gravità della situazione sono così anche e soprattutto gli stessi, coraggiosi sforzi delle associazioni solidali attive sul territorio. Caritas gestisce un appartamento riservato a donne, bambini e famiglie, con 15 posti e un solo bagno (attualmente, di fatto, l’unica doccia “ufficiale” a disposizione dei migranti in tutta Ventimiglia).

Diaconia Valdese ha aperto un piccolo ricovero per minori non accompagnati. We World, Save the Children e 20k gestiscono reti di distribuzione alimentare e accoglienza in famiglia, Médecins du Monde un servizio minimo di assistenza sanitaria mobile. Gli attivisti dell’associazione Kesha-niya (che in lingua curda suona come un confortante “no problem”) fanno assistenza diretta sul lato italiano del confine a chi viene respinto dalle autorità francesi, offrendo ristoro dopo le 12, 20, anche 24 ore di fermo nei container della gendarmerie.

Si ritrovano su una piazzola vista mare lungo la vecchia Aurelia, garantiscono pasti caldi, energia elettrica per ricaricare gli smartphone, consulenza legale. E oggi, pur mettendo in guardia dal rischio che «un nuovo campo diventi solo un altro modo per nascondere il problema, marginalizzare e non trovare soluzioni», ammettono la necessità di «un segno di reazione, anche minimo, nel vuoto cosmico di diritti che è oggi questo pezzo d’Italia».

Mentre le ong sono nuovamente sotto processo (mediatico, e non) nel silenzio raggelante che già da qualche mese è calato su quello che succede nel Mediterraneo, sulla scena nazionale si ritorna timidamente a discutere di Ius Soli. I primi a non crederci sono proprio quei volontari costretti a mettere «una pezza» - dicono - alle mancanze della politica in tema di accoglienza. «La verità è che le politiche migratorie non hanno colore né elettorato, si affrontano in modo strumentale da una parte e dall’altra», riflette Luca Daminelli, attivista sul campo con 20k e ricercatore universitario in Migrazioni e processi interculturali. «Il modello che si seguirà probabilmente anche a Ventimiglia, a maggior ragione quando si accorgeranno davvero della gravità della situazione, è quello europeo: grandi hotspot di identificazione delle persone in transito sulle frontiere più calde, nessuna nuova possibilità alle reti di accoglienza che, con tutti i loro limiti, avevano fatto nascere gli Sprar, neanche un euro di tutti i milioni stanziati dai vari Recovery Plan investiti su reali progetti di integrazione».

Scelte precise non solo di gestione pratica del problema, ma anche di «educazione alla sensibilità», sostiene ancora Manuela, dalla Caritas. «Durante il primo lockdown», racconta, «quando in fila per i nostri pasti c’erano più che altro italiani, pensavamo che questa città e le sue istituzioni avrebbero capito qualcosa sulla condizione delle persone in transito, smettendo di rimanerne indifferenti. Ci sbagliavamo, a vedere come si affronta ancora oggi il problema. In cinque anni ci siamo abituati a tutto, a troppo. E no, non ne siamo usciti migliori».