I prodotti dello Xinjiang finiscono ad aziende del nostro Paese che poi li riesportano con bandiera tricolore. Il dibattito sulle sanzioni Ue dovrebbe tenere conto anche di questo commercio e dei suoi effetti sul clima

C’è un commercio che riguarda da vicino il nostro Paese e che tuttavia è poco discusso nel dibattito sulle sanzioni imposte alla Cina dall’Unione europea per la repressione attuata nello Xinjiang. Secondo un rapporto degli esperti delle Nazioni Unite, circa un milione di uiguri - la minoranza etnica di religione musulmana che abita nella regione - sarebbero internati in «campi di rieducazione», dove sarebbero sottoposti a programmi di indottrinamento. Così da fine marzo quattro funzionari di alto rango del Partito comunista locale sono soggetti a un divieto di ingresso nei Paesi Ue e al congelamento di eventuali beni detenuti nel territorio dell’Unione. Alcune aziende d’abbigliamento - tra queste l’Oviesse in Italia - hanno annunciato che non si riforniranno più di cotone dallo Xinjiang, che è una delle principali regioni produttrici del mondo, per timore che nei campi sia impiegata manodopera sfruttata.

Ma oltre al cotone, lo Xinjiang esporta massicciamente un altro prodotto: il triplo concentrato di pomodoro. Il frutto rosso viene qui coltivato su migliaia di ettari, per poi essere trasformato in una trentina di fabbriche disseminate su tutto il territorio della provincia. Esattamente come il cotone, il concentrato di pomodoro è una merce globalizzata: non viene consumato nel mercato interno, ma è esportato nella sua totalità. Una volta prodotto in questa remota regione dell’Asia centrale, inizia infatti un lungo viaggio che lo condurrà ai quattro angoli del pianeta, con una destinazione privilegiata: il porto di Salerno. Alcune aziende campane acquistano triplo concentrato proveniente dallo Xinjiang, vi aggiungono acqua e sale e lo trasformano in doppio concentrato prodotto in Italia. In questa veste lo riesportano con la bandiera tricolore in tutto il mondo.

Intendiamoci, il processo è del tutto legale. Ma solleva una serie di questioni: perché questi industriali si riforniscono di materia prima in Cina piuttosto che in Italia, primo produttore europeo di pomodoro? Quali sono le implicazioni morali di questa importazione? Il pomodoro concentrato cinese ha un prezzo notevolmente inferiore rispetto a quello prodotto in Italia. I costi di produzione cinesi sono molto bassi proprio perché la raccolta nei campi è compiuta da coorti di braccianti pagati pochissimo, con l’impiego diffuso di manodopera minorile. Molti di questi lavoratori sono uiguri.


La filiera di produzione di pomodoro nello Xinjiang, avviata negli anni ’90 del Novecento proprio su sollecitazione di alcuni industriali italiani, è legata a doppio filo al sistema di controllo e repressione attuato negli anni nei confronti degli uiguri. Una delle due aziende che produce ed esporta pomodoro - la Chalkis - è proprietà dello Xinjiang Shengchan Jianshe Bingtuan (Corpi di produzione e costruzione dello Xinjiang - Xpcc nel suo acronimo inglese). Fondato nel 1954 per colonizzare lo Xinjiang, questo ente ha assunto negli anni interessi variegati nella regione, amministrando direttamente terre, città, tribunali, holding e aziende, fra cui la Chalkis. Con l’accusa di gestire i campi di internamento, lo Xpcc è finito nel mirino delle sanzioni Ue.

Oltre al possibile ruolo nello sfruttamento degli uiguri, questo commercio di concentrato ha altre non trascurabili conseguenze: il suo trasporto da una parte all’altra del pianeta produce tonnellate di emissioni clima-alteranti, fa concorrenza sleale ai nostri produttori di pomodoro e, in ultimo ma non meno importante, sottrae terre alla produzione alimentare destinata alla popolazione cinese.


Se, come ha sottolineato l’eurodeputato francese Raphaël Glucksmann in un’intervista su questo giornale «la politica deve avere il coraggio di riprendere in mano le redini della globalizzazione», forse si potrebbe cominciare ad agire su questo commercio di pomodoro, così poco sostenibile sia dal punto di vista ambientale che del rispetto dei diritti dei lavoratori.