Uno scrittore racconta la storia delle donne che partono dalla Romania per lavorare in Italia. E quando tornano a casa soffrono della sindrome che diventa simbolo del nostro disagio (Foto di Michele Borzoni)

Una domenica mattina attraversavo il parco di Porta Venezia. C’era il sole e si sentiva la primavera. Senza accorgermene è arrivata l’ora di pranzo e attorno a me, poco alla volta, le panchine si sono riempite di gente. Dalle buste di tela uscivano teglie e piatti, bottiglie e posate. Si preparava il ritrovo di quelle donne che nel resto dei giorni sono invisibili, nascoste dentro le case, chiuse nelle camerette che abitavamo noi quando vivevamo coi genitori, nel frattempo diventati anziani e bisognosi di cura e di assistenza continua, cose che i ritmi del mondo globalizzato non ci permettono più di offrire.

Chi non le ha mai incontrate? Di quale famiglia non hanno intrecciato la storia? Ad ogni latitudine esistono le traiettorie della cura: la mia protagonista è rumena e lascia la campagna fuori Ia ș i, al confine con la Moldavia, per venire a Milano, ma avrebbe potuto essere una peruviana che va a Washington, un’indiana a Dubai, una nord africana che migra in Israele. Il mondo ricco e occidentale, insomma, siccome è anche il più vecchio, affida la cura. E cura significa donne. Così, anche se a sentire alcuni politici, la migrazione sembra ancora un fatto essenzialmente maschile, da trent’anni a questa parte il settanta percento dei migranti del pianeta è donna. E nella stragrande maggioranza dei casi, madre.

L’immagine di Enea che porta sulle spalle Anchise, il padre ormai anziano, non ci descrive più. Quel gesto da un po’ di tempo lo compie qualcun altro. Non è una responsabilità e nemmeno una critica – tutti elementi che a un narratore interessano poco – ma un cambiamento di cui, per una serie di ragioni profonde che forse hanno a che fare con il pudore, il senso di colpa, l’amore stesso, non abbiamo ancora parlato a sufficienza. In quell’immagine di Enea, sostituito da una persona che non ha legami di sangue col vecchio appoggiato sulle sue spalle, si nasconde un dato ancora da rivelare e che per essere messo meglio a fuoco va ripetuto: queste donne sono madri.

Ce l’hanno raccontato il primo giorno che si sono presentate, quando ci siamo improvvisati mediatori culturali e, insieme, datori di lavoro. Ce l’hanno ricordato con le videochiamate quotidiane ai figli lasciati a casa, a volte ancora bambini, altre già adolescenti ribelli o, al contrario, adulti precoci dal sorprendente senso di responsabilità. Se sono madri, vuol dire che l’anello scoperto della catena sono proprio i figli rimasti a casa, che la sociologia chiama “left behind” o “children home alone”, suscitando immagini che non hanno bisogno di chiose ulteriori.

Ovunque ci sono migliaia e migliaia donne che vanno a portare cura a estranei dall’altra parte del mondo lasciando senza i propri figli, che non hanno nemmeno avuto la possibilità di scegliere se restare o partire. Possono solo aspettare. Il contrappasso per dare loro le stesse possibilità degli altri, per emanciparli economicamente, è rompere il legame più primordiale e trascorrere una vita a distanza. Stiamo parlando di una lontananza profonda, di una ferita che dura anni e anni, durante i quali ci si aggrappa alle videochiamate e in cui si attende il ritorno come un’epifania.

Ma nel frattempo si cresce e si invecchia, ognuno su un proprio binario parallelo, e può diventare difficile continuare a condividere quel nodo di sentimenti che col tempo si fa più inestricabile. Ecco, io volevo indagare proprio quel nodo, quella «orfania» e quella nostalgia di maternità che mi ha comunicato meglio di tutti una donna che assisteva un anziano nel palazzo dei miei genitori. Svetlana era alta e robusta, sulla cinquantina, e ci teneva a mostrarmi la stanza dove viveva. Aveva una fotografia sul comodino, in una cornice di argento luccicante. C’erano due bambini, avranno avuto cinque o sei anni. Non mi ha dato nemmeno il tempo di chiederglielo che subito mi ha risposto: «Adesso sono molto più grandi, ma tengo questa fotografia perché a quei tempi facevo ancora la madre».

Quella frase è bastata a farmi cambiare il progetto del romanzo che avevo in mente. Non poteva più essere soltanto il racconto di una donna come lei, ma doveva comprendere anche i suoi figli. In fretta si sono imposte altre domande: se questo fenomeno è planetario, quanti saranno quelli che crescono senza madre? Cosa provano a immaginarla ogni giorno dedita alla cura di altri corpi, di altri volti, di altre esistenze e non di loro?

Sono partito per Iași, la seconda città più grande della Romania, in autunno. Iași è molto bella e movimentata, ci sono sette università, un numero incredibile di chiese abbracciate da vecchi palazzi sovietici che col loro grigio minaccioso offuscano l’orizzonte. Volevo confrontare la vita di quel centro con i borghi della campagna circostante. A Iași ho ricevuto un’accoglienza calorosa da diverse autorità, sorprese che uno scrittore straniero si interessasse a un tema - l’emigrazione delle donne - che per loro è una questione sociale di proporzioni notevoli e in continua crescita. Ho visitato comunità di bambini e ragazzi con i genitori sparsi per il mondo: spesso non sapevano nemmeno dove fossero, alcuni non li vedevano da anni, qualcuno aveva ricordi confusi.

C’erano gli arrabbiati, accecati dalla lontananza; i ribelli, che la notte scavalcano i cancelli per scappare in discoteca; gli inconsapevoli, illusi che la loro vita fosse uguale a quella di tutti gli altri; ma c’erano anche i coraggiosi, che trovavano nel sacrificio della lontananza una ragione sufficiente per non tirarsi indietro dai propri doveri e fare la propria parte fino in fondo. I figli di Daniela, così si chiama la mia protagonista, hanno i volti di quei ragazzi e attraversano molti dei loro stati d’animo.

La visita più importante in città è stata all’Istituto di psichiatria “Socola”, un edificio a cui si arriva percorrendo a piedi una lunga strada dissestata. La direttrice, alta e magra, con uno sguardo severo e un tono di voce paziente, mi ha portato nel padiglione che ospita le malate di “Mal d’Italia”. Per alcuni “Sindrome”, per altri “Male”, ma il nome del nostro paese non cambia.

Siamo, insieme al Giappone, la nazione più vecchia del mondo, così gli psichiatri hanno reso l’Italia emblema della malattia che silenziosamente rode come un tarlo l’equilibro psichico e fisico di coloro che vivono per anni lontano da casa e si occupano, notte e giorno, di stare vicino a chi soffre di patologie complesse come l’Alzheimer e il Parkinson. Insieme alla direttrice ho attraversato gli stanzoni, ciascuno con sei letti - vecchi letti con le assi di legno scuro - dove donne dagli occhi assenti, con i segni del “burnout” scavati sul volto, rispondevano a fatica al saluto. Quando, ore dopo, ho potuto parlare con un paio di loro, ho avuto l’ennesima prova che la realtà è molto più impietosa ed iperbolica della letteratura.

Se volevo scrivere un romanzo familiare e mantenermi ancorato al rapporto madre-figli e alle relazioni affettive avrei dovuto solamente sottrarre: Daniela non doveva né bere, né finire in famiglie sfruttattrici o aggressive, come a molte di loro era capitato.

Ripercorrendo a ritroso la strada dissestata ho pensato che non serve essere particolarmente patriottici per sentirsi pungere da una definizione come “Mal d’Italia”. Siamo il simbolo di un disagio, di una popolazione anagraficamente molto vecchia, che non può fare a meno di queste lavoratrici perché non sono soltanto un supporto, ma una parte dell’impalcatura sociale.

Quasi vent’anni fa, appena dopo l’approvazione della legge Bossi-Fini, si era corsi ai ripari con una sanatoria per mezzo milione di colf e badanti perché sono l’immigrazione silenziosa di cui non possiamo fare a meno. Una migrazione espulsa dal dibattito pubblico, tanto dai populismi quanto dalle discussioni parlamentari, ridotta ad argomento sociologico o a tema sindacale. Eppure oggi parliamo finalmente di diritti delle donne, di emancipazione, di parità, di usi più rispettosi della lingua: queste storie non possiamo non conoscerle più da vicino.

E infine ho visitato la Romania rurale, con una natura incredibile, montagne in lontananza e campi di girasoli sotto gli occhi. Mi sono spostato verso la Moldavia, fuori dall’Unione Europea. Per le moldave (come per le ucraine) è tutto ancora più complicato: bisogna anzitutto procurarsi un passaporto. Chi è emigrata a fine anni Novanta spesso racconta storie rocambolesche per superare i confini. I pullmini che ora siamo abituati a vedere fuori dai capolinea delle metropolitane o sul retro delle stazioni ferroviarie sono arrivati dopo.

Il paese di Daniela e dei suoi figli è proprio un piccolo borgo di campagna, come ce ne sono tanti fuori dai centri urbani. Al mercato e per le vie si trovano in maggioranza uomini: fanno la spesa, entrano nelle botteghe, chiacchierano tra le bancarelle. Le donne che si vedono meglio, a parte quelle più anziane, stanno sui cartelli della pubblicità, specie quelli delle compagnie telefoniche. Sono quasi sempre immortalate nell’atto di parlare coi figli.

Dai ragazzi, invece, chiacchierando davanti a una birra, ho ascoltato sogni diversi, visioni del futuro inedite e sorprendenti. Ovviamente alcuni - specialmente chi grazie alle rimesse delle madri ha portato a termine gli studi - covano il desiderio di andarsene lontano: sognano le capitali europee o gli Stati Uniti. Ma altri vogliono restare: se andarsene vuol dire seguire la sorte dei genitori, mi spiegavano, allora meglio provare a immaginare un avvenire diverso qui dove siamo nati, cercare di cambiare aspetto a questi posti che, in effetti, sotto la ruvidità del paesaggio possiedono un fascino, come le storie delle loro famiglie, ancora in attesa di essere raccontato.

Il figlio più piccolo di Daniela, Manuel, forse per ripicca, forse per contrapposizione a sua madre, desidera trasformare la casa dei genitori e l’orto del nonno in un agriturismo. Vuole ricominciare dai semi dei pomodori e delle fragole. Non vuole che le erbacce e i rami dell’albero coprano il tetto della casa dove è cresciuto. E a me sembrava che quel giovane custode di un mondo fosse la pagina più luminosa della storia che volevo iniziare a scrivere.