C'è chi non mangia, chi crede di aver perso la vista o di non poter più camminare. Insonnia, disturbi, gesti di autolesionismo fino all'aumento dei tentativi di suicidio. Viaggio nei reparti di neuropsichiatria infantile italiani. Dove si curano le ferite invisibili della pandemia

Con questo servizio Elena Testi ha vinto il Premio Luchetta 2021 per la stampa italiana

È una cannuccia il momento del risveglio. Arriva alle labbra, si posa. La vita sembra tornare con un unico sorso d'acqua. La vita si presenta di nuovo mentre l'infermiere chiede «come va?». Attende la risposta, osserva la reazione. I corpi sono fermi, inermi e nudi. I tubi vestono il paziente in un perfetto equilibrio tra necessità e possibilità di movimento. Al Sant'Orsola di Bologna la terapia intensiva Covid-19 del padiglione 25 non ha mai smesso di emettere il suo «beep». È un tempo fermo, quello di ognuno di noi. Un tempo che si ripete a cicli concentrici e colorati di rosso, arancione e giallo.

A pochi passi dal padiglione 25, così pochi che si possono contare mentre si cammina, c'è il pronto soccorso pediatrico. Un bambino, ha 12 anni, è aggrappato alle braccia del padre. Lui, i passi impercettibili dall'auto all'entrata del pronto soccorso, riesce a contarli solo con la mente e con l'ansia. Spiega che «no, non può più camminare» e che «le gambe non funzionano più». Non riesce ad alzarsi in piedi, non può più farlo.

Nel padiglione 25 ci sono i padri di 42 anni che salutano i figli prima di essere intubati, a pochi metri di distanza c'è un'altra terapia intensiva, quella dell'anima, accoglie l'invisibilità della mente che cede di bambini e adolescenti. Nel pronto soccorso pediatrico c'è il «beep» costante delle paure che porta un dodicenne a credere che le gambe non funzionino più anche se tutto va bene. Un altro teme di aver perso la vista per sempre, che i suoi occhi non riescano più a cogliere colori e sfumature, quelle che da un anno raccontano la vita di un Paese e di un mondo intero. C'è poi lo sguardo miope degli adulti, capaci di vedere a distanze ravvicinate, ma che perde prospettiva in lontananza.


Chiusi, soli, abbandonati. Si trascinano nelle loro stanze. Alcuni sviluppano un attaccamento compulsivo nei confronti dei genitori, quando ci sono. Altri si allontanano. C'è chi non mangia più, chi mangia troppo. Problemi di insonnia e di autolesionismo per liberare l'angoscia che arriva dal mondo esterno. Un aumento dei tentati suicidi dal 30 al 50 per cento nei reparti di neuropsichiatria infantile italiani. Non si parla più di semplici reclusi, ma di una generazione che stiamo abbandonando e dimenticando, presi dal problema dell'attimo. Curati con la didattica a distanza nella speranza che basti a colmare il vuoto scolastico. Ciechi di fronte a decine di bambini che ogni giorno vanno nei pronto soccorso del Paese a chiedere aiuto per una malattia che lascerà strascichi per anni, pesando sui costi sociali e sanitari.


Il professore Marcello Lanari, direttore della pediatria d'urgenza del Sant'Orsola, parla mentre l'ospedale viene riadattato per fare spazio ai pazienti Covid-19: «Le scuole erano l'ultima cosa che dovevamo chiudere. Purtroppo, seppur dolorosa e non senza prezzo, è una scelta alla quale si è dovuti arrivare, nonostante gli studi dicano che il problema delle infezioni non risieda dentro una classe ma nel tragitto che si fa per raggiungerla o in altre attività di aggregazione giovanile o dentro i nuclei familiari». Ma non si ferma qui: «In base a uno studio che abbiamo fatto e pubblicato, abbiamo scoperto che su 7.958 genitori intervistati, circa il 40 per cento ha riferito che dall'inizio della pandemia la propria situazione economica è peggiorata. Nel 10,9 per cento dei casi almeno un genitore ha perso il lavoro. Per quanto riguarda le esperienze e l'attitudine rispetto al lockdown, i genitori ritenevano che i loro figli avessero sofferto soprattutto la mancanza degli amici e riportavano che i bambini erano diventati più nervosi e si sentivano soli».
Giancarlo Cerveri, direttore del reparto di psichiatria dell'ospedale di Codogno conosce bene le ansie dei genitori, strettamente legate a quelle del mondo che verrà: «Io posso parlare per gli adulti, ma loro sono il nucleo familiare, e quello che noi vediamo è solo la punta dell'iceberg. Per intenderci, nell'hinterland milanese si parla di un tentato suicidio al giorno, un aumento della violenza e dell'autolesionismo. La verità è che molte persone passate nei nostri reparti non sono mai state prese in carico dai servizi». La malattia mentale corre veloce quanto il virus. Non ha ondate, ma è costantemente in aumento. Eppure nulla appare nelle agende politiche. L'Italia è ultima in Europa per posti letto in psichiatria e la rete territoriale fa fatica a colmare l'enormità dei bisogni in crescita.


In questo anno c'è sempre l'adesso, il momento plastico delle nostre vite che si intreccia ai lockdown necessari, presi da una rincorsa che non sappiamo anticipare. A Brescia la terza ondata è arrivata prima di altrove. Le luci sono accese, la sirena è stata spenta e vicino all'ospedale smette di suonare. Ne arriva una ogni dieci minuti. All'ospedale Poliambulanza si prepara il paziente per portarlo al Papa Giovanni XXIII di Bergamo, perché qui non ci sono più posti. Giuseppe Natalini, direttore della Terapia Intensiva, si affaccia: «Siamo un po' come lo scorso anno, con la fortuna che la terza ondata qui è partita prima e possiamo trasportare i pazienti fuori provincia». Dentro ci sono 16 intubati, si preparano ad arrivare a 25 posti letto: «Siamo alla ricerca degli untori, fa un po' sorridere che la colpa della pandemia sia degli adolescenti. È un Paese che cerca un colpevole e punta il dito, non credo che sia un aperitivo a far riprendere il contagio».


A 540 chilometri di distanza Stefano Vicari, professore all'università Cattolica e direttore della neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza del Bambino Gesù di Roma, sta prendendo in cura una bambina di 12 anni che si è gettata dalla finestra, un altro di 13 che ha nascosto tutte le pasticche che ha trovato in giro per casa e le ha ingerite per tentare il suicidio. Un'altra ancora, dagli ottimi voti a scuola, ha deciso di smettere di mangiare. Vicari ammette: «A me i posti letto spesso non bastano, ne ho un po' sparsi per l'ospedale, ma la verità è che nessuno si sta accorgendo di quello che sta realmente accadendo. Io ho da uno a due tentati suicidio al giorno, in una fascia d'età che va dai 12 ai 17 anni». Qui non ci sono tubi che vestono, ma bambini che si ritrovano nella sterilità di un reparto dove ogni cosa è precisamente calcolata. Bagni predisposti e senza rubinetti, porte velate, un accesso che ha bisogno di un codice. Il dottor Vicari continua: «Il periodo che stiamo vivendo rimescola le carte, ci sono adolescenti che picchiano i genitori, si tagliano perché il dolore fisico gli dà sollievo dal mondo esterno. È come se l'emergenza psichiatrica con il Covid-19 stia avendo un detonatore. È constatato che il 20 per cento degli adolescenti e pre-adolescenti abbia problemi psichiatrici, ma la sensazione è che stiano aumentando. Un ragazzo su tre in questo momento potrebbe sviluppare un disturbo, ma per capirlo avremo bisogno di tempo. Purtroppo ce ne accorgeremo».


I numeri dettano la linea del problema. Vicari parla di aumento dei ricoveri in psichiatria di minori dal 20 al 30 per cento, un aumento arrivato con la seconda ondata e non nella prima. «Il primo lockdown – spiega – i giovani l'hanno vissuto un po' come un anticipo delle vacanze estive, una pausa dalla scuola. C'erano i genitori a casa, poi da ottobre è cambiato tutto. Sono rimasti nelle proprie abitazioni da soli per tempi prolungati e la didattica a distanza ha creato problemi enormi». Arriva l'appello anche dell'Associazione degli ospedali pediatrici italiani: «Il mondo adulto, pur con grandi sofferenze, è proiettato sui vaccini e sulla fine della pandemia, ma i nostri ragazzi non sanno come immaginare il futuro, e questo dolore silenzioso si insinua ogni giorno creando fratture che poi deflagrano nei nostri pronto soccorso come osserviamo in questi mesi. I suicidi rappresentavano già a livello globale la terza causa di morte nei soggetti di età compresa tra i 15 e 19 anni, dopo incidenti stradali e tumori. Adesso una recente autorevole pubblicazione dimostra un significativo incremento di questo terribile fenomeno in correlazione al dramma pandemico».


Ma i segnali di un disturbo erano già evidenti. La Fondazione Mondino di Pavia ha effettuato uno studio, durante la prima ondata, su 1.649 ragazzi che non hanno mai avuto disturbi di natura psicologica, scoprendo che l'80 per cento ha risposto di avere avuto alterazione dei contenuti del pensiero; stati allucinatori; sintomi dissociativi; stati di agitazione ed ansia; preoccupazione ansiosa per la salute e per il futuro e disturbi del sonno. Di questi il 24 per cento ha avuto sintomi acuti mentre il 50 per cento va verso una cronicizzazione della malattia. Il professore Renato Borgatti, che dirige la neuropsichiatria infantile del Mondino, non condivide molte decisioni prese fino ad ora: «Ci siamo riempiti la bocca con la Dad e loro sono rimasti più soli di prima. Adesso iniziano a sperimentare il disagio. Siamo miopi, non vediamo il lungo termine e né una chiara strategia di politica sanitaria». Borgatti e Vicari sono stati auditi al Senato, invitati per esporre i dati. «Lei pensa che sia stato fatto qualcosa? Come soluzione al problema – continua Borgatti – abbiamo pensato di rinchiudere gli adolescenti a casa senza prevedere cosa avrebbe comportato per il futuro del Paese, dando vita ad adolescenti senza scopo». Ci sono quei tagli sulle braccia, spesso nascoste a genitori ignari che arrivano quando ormai la malattia è in fase acuta, c'è il corpo che diventa un mezzo per attirare l'attenzione.

«La didattica a distanza – spiega Renato Borgatti – crea danni seri. Le faccio un esempio: alcuni giorni fa è venuto da noi un ragazzino, non riuscivamo a capire perché fosse così traumatizzato. Scavando abbiamo scoperto che molti adolescenti e pre-adolescenti duranti le ore di lezione si spediscono link di forte impatto emotivo, come siti dove ci sono delle deformità corporee, youtuber che fanno cose terribili. Un fenomeno che corre come il virus, ma nessuno fa nulla perché alla fine parliamo sempre di bambini, adolescenti ed educazioni. Ma parliamo appunto, senza agire. L'isolamento sociale per gli adolescenti significa interferire con un naturale percorso di crescita, a loro manca il semplice tocco umano, per non parlare del fatto che da un anno non c'è più attività sportiva, importantissima per loro. A mio avviso avremmo potuto ideare una campagna vaccinale con priorità diverse che potesse dare una risposta alle future generazioni».


Le soluzioni non bastano mentre i problemi aumentano. Leonardo Sacrato, Unità operativa di neuropsichiatria infantile e Centro regionale per i disturbi del comportamento alimentare per l'età Evolutiva dell'ospedale Sant'Orsola - Malpighi di Bologna, avverte: «Abbiamo bambini che già a 9 e 10 anni riscontrano disturbi alimentari. Si chiama anoressia nervosa ad esordio precoce. Solo pensando all'ultimo mese abbiamo preso in cura ragazze che già a 13 e 14 anni hanno smesso di parlare in famiglia, rifiutano il contatto fisico, sono sconvolte da una sensazione di ansia e angoscia. Dicono di non piacersi più». Sacrato spiega: «I nostri ragazzi sono rimasti per un lungo periodo a contatto con fattori precipitanti che li hanno portati a uno smarrimento. Per loro non esistono più fattori protettivi, sono rimasti chiusi nell'armadio con le loro paure e le insicurezze dei genitori. Hanno perso tutti quegli elementi che permettevano loro di rimanere in equilibrio». I bambini sono arrivati a non usare più neanche la fantasia che da sempre li protegge, e anche loro si chiedono quando tutto finirà. I fragili vengono lasciati da parte in una strana selezione del più forte che prevale in questa società. A saperlo bene è la professoressa Maria Paola Canevini che all'ospedale San Paolo di Milano, tra gli altri, si occupa di bambini con il disturbo dello spettro autistico o affetti da Adhd (Disturbo da deficit di attenzione iperattività): «Con alcuni di loro abbiamo provato a lavorare in telemedicina, con altri abbiamo cercato di mantenere la presenza con tutto quello che comporta. È chiaro che le famiglie e questi bambini stanno soffrendo, i genitori si sentono caricati di un peso maggiore. I bambini vivono purtroppo un aumento di ansia, paura che i familiari si ammalino ed è anche per questo che abbiamo cercato di aiutare i genitori nello spiegare ai loro figli cosa fosse il Covid-19 con materiale apposito». Anche qui, però, il finale è disarmato: «È chiaro che non bastano i centri specialistici e le reti territoriali per far fronte alla richiesta. Non bastano già in condizioni normali, perché abbiamo poche risorse».


L'Italia è una nazione alle prese con il virus, una zona rossa che preferisce soluzioni drastiche d'urgenza, senza anticipare per poi fermarsi e guardare le macerie dietro di sé. Centomila morti da Covid-19, una generazione che verrà abbandonata ai suoi incubi. Sarebbe più altruistico se non li trattassimo tutti come possibili figli nostri, ma come i cittadini di una comunità. Così non è.