Le storie private. Il coraggio. La memoria. Il premio Pulitzer di origine vietnamita Viet Thanh Nguyen prosegue il suo racconto sugli invisibili. «Nella società vedo ancora gli effetti del colonialismo». E ancora: «Il mondo sa la verità sul sogno americano, molte popolazioni lo hanno vissuto sulla propria pelle pagando un alto prezzo di morti»

«Sarebbe mai finita la nostra guerra?» si chiede il protagonista de “Il Militante” (Neri Pozza) di Viet Thanh Nguyen, il seguito de “Il Simpatizzante” (uscito sempre per Neri Pozza nel 2016) che è valso all’autore di origine vietnamita ma naturalizzato americano (insegna alla University of Southern California a Los Angeles) il Premio Pulitzer per la narrativa nel 2016.

 

La guerra tra Vietnam e Stati Uniti torna nel nuovo romanzo sotto forma di vita da rifugiato del protagonista a Parigi; al centro della ricerca di Viet Thanh Nguyen c’è ancora la memoria, la ricerca dell’identità e il rimosso coloniale, questa volta europeo. Il protagonista del libro è sempre l’uomo senza nome, «l’uomo con due facce e due menti diverse»: è proprio questa apparente dissociazione a costituire la cifra letteraria di Viet Thanh Nguyen, i cui romanzi procedono per flussi di pensiero inchiodati da una trama che si tinge di noir e di scorribande criminali. Una dissociazione che permette all’autore di appoggiare su scenari e situazioni grottesche, comiche, lapidarie sentenze su di noi, su un Occidente ancorato alla visione immaginifica sancita dal “sogno americano”.

 

Ma questa dissociazione diventa una moltiplicazione dal punto di vista politico: le due facce, le due menti, consentono al romanzo di passare da riflessioni ciniche ad arrampicate filosofiche altissime che indagano il tema del razzismo, del capitalismo e dell’idea di mondo che ne discende, tramutando le avventure del protagonista - ex spia, ex comunista, aspirante capitalista, spacciatore e maître à penser suo malgrado - in un atto di accusa nei confronti dell’Occidente. Due menti che permettono infine una comprensione ricca di sfumature, tanto del sistema valoriale vietnamita e asiatico, quanto di quello occidentale. Abbiamo raggiunto Viet Thanh Nguyen a Los Angeles per parlare della sua nuova opera narrativa.

 

“Il Militante” comincia con un racconto epico: la traversata dei rifugiati. Perché ha voluto utilizzare questi toni omerici, come li definisce nel corso del libro?

«So bene come i media hanno descritto i viaggi dei rifugiati, sia rispetto alle migrazioni dei vietnamiti negli anni ’70 sia più di recente rispetto ai migranti che arrivano dall’Africa o da zone di guerra. Di solito si usava l’espressione “boat-people” che in verità rende queste persone degli oggetti e enfatizza la loro disperazione e paura; si tratta di sentimenti innegabili, veritieri, ma per molti è necessario sottolineare anche il coraggio. Per me è molto importante ribadire il loro eroismo per contrastare quello che l’Occidente attribuisce ai suoi navigatori, ai suoi esploratori. Quindi ho cercato di rendere molto palese la mia idea, ovvero riservare ai rifugiati lo stesso trattamento epico che l’Occidente riserva ai suoi eroi, specie perché nessuno conosce le loro storie, ma ognuno dei rifugiati ha una sua storia».

 

Quali sono oggi come allora le origini di queste migrazioni?

«La parola chiave è il colonialismo, una forma del capitalismo: si tratta di due elementi inseparabili. Anche se ufficialmente gli Usa e molti stati europei oggi parlano di post-colonialismo, in realtà la colonizzazione continua sotto altre forme. Gli Usa ancora oggi godono dei benefici derivanti da quel periodo, così come i Paesi colonizzati ancora oggi pagano il prezzo del dominio politico, economico e culturale che hanno subito. Per questo molti di questi Paesi sono ancora oggi instabili, martoriati da guerre: è il risultato della colonizzazione. A questo si aggiunge un elemento: il cambiamento climatico, un risultato collegato al capitalismo e che ancora oggi produce migranti e rifugiati».

 

Nel libro scrive che ai francesi piace parlare del razzismo americano per dimenticare il proprio. Potremmo dire che in genere agli europei piacere parlare del colonialismo americano per dimenticare il proprio?

«Gli americani dicono lo stesso: guardate il colonialismo europeo! La verità è che gli Stati Uniti non esisterebbero senza il colonialismo, basta chiederlo ancora oggi alle popolazioni americane indigene. Ma in realtà - e questo volevo sottolinearlo ne “Il militante” perché ne “Il simpatizzante” prendo di mira soprattutto gli Usa - le forme di colonialismo che ha subito il Vietnam sono assolutamente collegate, intrecciate: non sarebbe esistito il colonialismo americano senza quello precedente francese. I due processi sono simbiotici, quindi dopo aver affibbiato responsabilità agli americani, nel nuovo libro è il turno dei francesi. Ma si tratta di un’attitudine condivisa da tutti i Paesi europei che hanno avuto colonie, sia nei metodi sia nei benefici che hanno tratto. L’amnesia dell’Europa è un altro tratto comune, perché quel passato non è studiato, non è stato elaborato così come non si ammette che le attuali società occidentali sono anche il risultato della colonizzazione. C’è poi un fallimento da registrare: gli ideali francesi di libertà e uguaglianza non sono stati applicati alle colonie. Anche per questo si è sviluppato un sentimento che definirei “romantico” nei confronti della storia coloniale, provando a unire anche esperienze piuttosto diverse come ad esempio il Vietnam e l’Algeria. Il mio scopo era colmare questo vuoto, ricordare, non solo sottolineare le responsabilità».

 

Come ne “Il Simpatizzante”, anche ne “Il Militante” non ci sono parole di elogio per il “sogno americano”. È ancora così in grado di determinare la nostra percezione del mondo?

«Gli Stati Uniti come altri imperi prima di loro sono stati capaci di diffondere l’idea che ogni americano ha del proprio Paese in tutto il mondo. Penso però che il resto del mondo sappia la storia e la verità riguardo al “sogno americano”, anche perché molte popolazioni lo hanno vissuto sulla propria pelle sotto forma di bombe, di guerre, pagando un alto prezzo di morti. Tutti lo sanno, tranne gli americani, per i quali bombardare un altro Paese fa parte della propria politica estera, considerata legittima. Lo sa bene la Cina, le cui ambizioni sono chiare ma senza l’utilizzo, almeno per ora, di bombe».

 

A proposito di Cina, dopo Hong Kong e la Thailandia anche in Myanmar, a seguito del colpo di Stato, ci sono proteste e anche vittime purtroppo. Che pensa di quanto sta accadendo?

«Si tratta di territori nei quali la democrazia non è molto popolare. Alcuni Paesi asiatici sembrano prediligere un partito unico che governa, sempre che riesca a migliorare le condizioni della popolazione. Al netto della mancanza di libertà e della repressione, questo bilanciamento in alcuni paesi ha funzionato. In Myanmar e Thailandia questo sistema è diventato sbilanciato e la popolazione ha protestato. Posso anche accettare che la democrazia non sia un valore universale, ovvero che possano esistere altri sistemi, ma il compito rimane quello di creare le condizioni economiche perché la popolazione stia bene e si possa esprimere. Se non avviene significa che quei sistemi hanno fallito».

 

Parag Khanna ne “Il secolo asiatico?” (Fazi editore) sostiene che viviamo nell’epoca dell’Asia. Crede che l’Occidente sia pronto a questa eventualità?

«È possibile che questo sia il secolo asiatico, almeno da un punto di vista economico, ma non penso che vedremo gli asiatici dominare come hanno fatto europei e americani. Dovremmo parlare di un’ascesa asiatica in grado di bilanciare gli equilibri mondiali, in modo che Usa e Europa non possano ripetere quanto fatto nei secoli passati. Mi pare che l’Europa al riguardo sia più preparata rispetto agli Stati Uniti a questo nuovo protagonismo asiatico».

 

Biden dice che l’America è tornata. È una visione più edulcorata di «Make America Great Again» o cambierà qualcosa?

«Credo che segretamente molti repubblicani stiano ringraziando Joe Biden, perché il loro desiderio è proprio questo, tornare a vedere l’America al centro delle politiche internazionali. In questo senso Biden, anche se in forma più educata a parole, sarà più assertivo militarmente di quanto non sia stato Trump. Devo ammettere che Trump era molto popolare in alcuni Paesi asiatici. In Vietnam ad esempio ha riscosso molto successo, soprattutto per la sua politica aggressiva nei confronti della Cina».

 

Nel 2018 e nel 2020 due portaerei americane sono arrivate in Vietnam, celebrate come simbolo della normalizzazione dei rapporti tra i due paesi, in funzione anti Cina. Le identità - di cui si è occupato in “Niente muore mai” (Neri Pozza) - si formano sempre contro qualcun altro, come sembra suggerire nel libro?

«Penso sia così: se parliamo nello specifico di Vietnam e Usa, per i vietnamiti la Cina è il pericolo numero uno da sempre. Il colonialismo di Francia e Usa è visto come una breve interruzione di una ben più lunga storia di rapporti turbolenti con la Cina. Per gli Usa oggi la Cina è il principale nemico. In generale le nazioni, e questo vale anche per le persone, hanno bisogno di un pericolo esterno. L’unica nota positiva che dimostra questa rinnovata vicinanza è che dopo così tanti anni anche i vietnamiti sembrano aver accettato che il passato è passato. Questo vale per la popolazione, non so quanto valga per gli Usa, che anche dopo la guerra in Vietnam hanno continuato ad agire allo stesso modo, e per il partito comunista vietnamita che ha indubbiamente liberato la popolazione, finendo però per ricreare le stesse condizioni - repressione politica, poca libertà, violenza - vissute durante il periodo coloniale. Da un punto di vista dei governi questa riconciliazione rientra nell’alveo degli strumenti utilizzati per mantenere il potere, quello globale per gli Usa, quello nazionale per il partito comunista».

 

Tornando agli Usa: a Minneapolis è cominciato il processo contro un ex agente accusato di aver ucciso George Floyd. Che pensa di Black Lives Matter e del suo modo di affrontare il razzismo negli Usa?

«Ci sono due visioni del razzismo negli Usa: una racconta che è una cosa brutta ma che appartiene al passato e che gli omicidi di polizia sono eccezioni; l’altra è Black Lives Matter, ed è quella in cui credo, e racconta di un razzismo endemico, come radice della creazione del Paese e momento fondamentale della colonizzazione e del capitalismo. Black Lives Matter ha il merito di collegare questi elementi, denunciando come la polizia in realtà difenda il potere dei bianchi e non dell’intera popolazione. Il motivo per cui “Blm” ha un impatto globale è che questi elementi sono riscontrabili in tanti altri Paesi: voglio ripeterlo, i risultati del colonialismo sono ancora presenti nelle nostre società».