Con il saggio "E allora le foibe?" Eric Gobetti smonta errori e mistificazioni sui massacri compiuti dai partigiani di Tito. Mostrando come operano le letture strumentali. E come recuperare le vere responsabilità 

Documenti, saggi, testi scientifici e accademici sulle foibe di certo oggi non mancano. Storici come Raoul Pupo e Roberto Spazzali, per non citare che i più noti, hanno ormai puntualmente ricostruito quegli eventi, facendo luce sulle violenze inaudite e sulle ragioni sociali e politiche che hanno reso scomoda la questione del confine orientale per molti anni. Perché, dunque, una pubblicazione come quella di Eric Gobetti, “E allora le foibe?” (Editori Laterza), un saggio agile e compatto di un centinaio di pagine, possiede un’indubbia utilità divulgativa? Mi sembra che le ragioni principali siano due: in Italia accade spesso che i fatti, ancor prima di essere studiati, finiscano nel tritacarne della propaganda politica e vengano cannibalizzati da questa o da quella fazione, diventando simboli da contrapporre rigidamente ad altri simboli. Una simile strumentalizzazione, è evidente, non porta nulla di buono ai fini della conoscenza, né permette quella lucidità di sguardo che appartiene soltanto a chi rispetta il dato di realtà. È un’abitudine incrostata, che non contamina unicamente la memoria storica, ma che in ogni caso prescinde dalla fatica dello studio per farsi tesi precostituita e scontro pubblico. La seconda ragione riguarda lo spirito di questo libro, che definirei un pamphlet militante - genere non molto frequentato in Italia - ossia un testo di dimensioni contenute che analizza un tema al fine di modificarne la percezione diffusa e di ossigenare il dibattito con una nuova consapevolezza.


Il libro si muove sia sul piano della ricostruzione storica, sia sull’uso strumentale che dell’argomento si è fatto in questi anni. Il Giorno del Ricordo, istituito nel 2004, rischia fin dalla sua nascita di diventare un’appropriazione di ambienti nazionalisti, più di tutto interessati a contrapporre la ricorrenza al Giorno della Memoria e, più indirettamente, al 25 Aprile. Il fine è chiaro: assimilare e dare a entrambi gli eventi celebrati la connotazione di genocidio. L’immaginario comune che così si viene a creare non solo equipara fenomeni diversissimi per caratteristiche e per proporzioni (le vittime della Shoah sono di un ordine di grandezza imparagonabile a quelle delle foibe e dei campi di concentramento titini), ma tende, di conseguenza, a sollevare il fascismo dalle proprie responsabilità storiche, facendo scivolare in secondo piano fatti come le leggi razziali e, prima ancora, la stagione violenta che il fascismo stesso ha inaugurato in quelle terre di confine. Una retorica fuorviante ha contribuito significativamente a cristallizzare la falsa immagine di un fascismo vittima delle vicissitudini, rimuovendo il suo ruolo di causa originaria delle violenze che si sono perpetrate per più di vent’anni in «regioni multiculturali, multilinguistiche, multinazionali […] italianizzate a forza dallo Stato italiano e fascista» (pp. 12-13), innescando uno scontro nazionale che verrà esasperato da quello ideologico e dal conflitto mondiale.


Il saggio comincia rammentando come la narrazione istituzionale abbia collaborato – con fondi pubblici, opuscoli e film messi in onda dalla tv di Stato – a contaminare il dibattito, a creare disinformazione e a legittimare un uso distorto della Storia. L’esempio dei film “Il cuore nel pozzo” (2005) e “Rosso Istria” (2019) sono particolarmente calzanti: in questi lavori le vittime sono soltanto italiani innocenti di fede fascista mentre gli aguzzini sono unicamente i soldati slavi e i partigiani, stereotipati in belve sanguinarie che agiscono sulla spinta di una violenza cieca e priva di motivazioni. Come emblematica, del resto, è una puntata di Porta a Porta di Bruno Vespa che, per rappresentare le foibe, mostrò la fucilazione di cinque partigiani sloveni da parte delle truppe italiane. E si potrebbe continuare tra numeri sparati da giornalisti di spicco, fino ad affermazioni perentorie di alcuni presidenti della Repubblica. Si tratta, insomma, di un misto di ignoranza, di retorica e di revisionismo.

Il merito del libro di Gobetti è così prima di tutto metodologico: i titoli dei nove capitoli richiamano i luoghi comuni e gli errori su cui si impernia un racconto diventato di largo dominio pubblico, e l’autore procede pazientemente, con un piglio sicuro e una voce chiara, a smontare, ricostruire, ricalibrare e riannodare le fila alla luce dei documenti. Chiarire i punti cruciali, smascherare le bugie costruite ad arte acquista in questo saggio un carattere, per dir così, di urgenza civile che lo rende, appunto, militante. L’autore è consapevole che ne va della nostra memoria. Ed è vero: se questa parola etimologicamente ha a che fare con il progetto e la costruzione, e non con la mistificazione e la musealizzazione di un passato che invece ci riguarda e chiede ancora di essere interrogato, si comprende, ad esempio, perché è fondamentale non riassumere i fatti con la parola “foibe”, dato che «una buona parte delle violenze condotte sul confine orientale non ha nulla a che vedere con le foibe» (p. 47), termine che ammalia e respinge per un suo potere evocativo, per una mescolanza di significante e significato che lo rende estraneo e al tempo stesso fortunato. E si capisce perché insistere sui numeri dei caduti non significa ridurre il dramma di chi in quel frangente tragico ha perso la vita, ma serve a pesare le proporzioni e a far luce sul contesto in cui le violenze si sono consumate. Ancora: puntualizzare che nella breve occupazione del ’43 e in quella più lunga del ’45 non si trattò di “pulizia etnica” ma di violenza politico-ideologica è conditio sine qua non per afferrare la logica e la dinamica dell’accaduto. Vittime non furono gli italiani in quanto popolo, furono specialmente gli italiani perché la loro collaborazione con i nazisti e la loro connivenza con l’Rsi erano più strette e perché il rifiuto dell’occupazione e del sistema politico jugoslavi erano per l’esercito titino posizioni sufficienti per arrestare e persino uccidere. «La volontà degli aggressori», ribadisce Gobetti, «è infatti quella di colpire solo determinate categorie di persone, ritenute, a torto o a ragione, responsabili dell’oppressione subita per più di due decenni» (p. 36).

“E allora le foibe?” ci ricorda come la verità storica si ricostruisce soltanto con un paziente lavoro di scavo. Ma, soprattutto, è una lettura che ci aiuta a intendere quanto sia pericoloso sintetizzare ed elaborare forzosamente una memoria conciliante, edulcorata e priva di spigoli. Non è un’operazione né prudente né sensata perché l’uso distorto del passato, come nota l’autore, finisce immancabilmente col produrre violenza. È semmai più giusto e più utile constatare che esistono memorie diverse e non tutte condivisibili: alcune puntano a una conoscenza che sia presa in carico del passato al fine di costruire un presente di pace, altre solamente a inquinare le acque. Che Eric Gobetti dimostri fin dall’inizio di aver scelto da che parte stare non toglie nulla all’onestà intellettuale di queste pagine.