Esiliata dai franchisti, espulsa dall'Italia, la pensatrice spagnola scrive di getto un'opera rapsodica piena di attenzione per la parte più infantile ma anche più crudele dell’umanità. Un pensiero che ancora oggi spiega che la Storia ha bisogno del pensiero femminile. Per non inaridirsi

Maria Zambrano
È in disparte, seduta compostamente a un tavolino del Caffè Greco. Scrive con fervore, quasi rapita e avvinta, malgrado il brusio intorno a lei. Quelle voci italiane, al contempo familiari ed estranee, sono lo sfondo più consono ai suoi pensieri. Roma sembra un surrogato di patria in esilio, proprio mentre l’esilio diventa l’orizzonte ultimo della sua vita. Il ritorno è infatti ormai un miraggio. Ovunque in Europa si saluta con sollievo la democrazia ritrovata. Solo la Spagna è rinviata al suo destino più tetro, consegnata al regime franchista, abbandonata da tutti. Sfuma per sempre la speranza degli esuli repubblicani. Eppure – María Zambrano lo sa bene – il popolo spagnolo sta con la Repubblica. Illegittimo, ingannevole, violento è l’ordine franchista, prodotto importato, ombra della modernità, esito dell’infezione totalitaria.

Dapprima - era ancora il 1953 - si erano stabilite all’Albergo d’Inghilterra. In quelle stanze protette e confortevoli le due sorelle, María e Araceli, si sarebbero fermate più a lungo, se solo avessero potuto, godendo di tutti i benefici che una sospensione della vita può offrire. Poi erano riuscite a trovare un piccolo appartamento sul Lungotevere - e quindi un altro nei pressi di Piazzale Flaminio. Pur conservando una patina di provincialismo, la città era attraversata da un’inedita effervescenza culturale. Grazie a Elena Croce frequentarono il circolo degli intellettuali raccolti intorno a Alberto Moravia e Elsa Morante, conobbero Cristina Campo e Elèmire Zolla, ripresero i contatti con gli spagnoli espatriati, tra cui Rafael Alberti e José Bergamin.

Chissà, forse il ritratto più inquietante e veritiero della sorella minore è quello tracciato da Elsa Morante che, nel suo ultimo romanzo “Aracoeli”, ne fece una madre colpita da un morbo misterioso, vittima di una sventura abissale, preda di una furia inarrestabile. Era accaduto nella Parigi occupata dai nazisti: il marito, esponente repubblicano, era stata preso, estradato in Spagna, fucilato. Araceli era sopravvissuta alle torture, ma quella violenza l’aveva precipitata nel delirio. María era andata a soccorrerla, senza pretendere di salvarla. «Non stavi né lì né qui, Ismene, sorella mia. Stavi con me. Alcuni uomini, non so chi, passavano di lì, senza entrare, perché sapevano che qui, unite e appartate, c’eravamo noi, vestite tutte e due di bianco». Zambrano scrisse allora “La tomba di Antigone”. Ma ripensò anche il delirio.

Le donne sono state per secoli abitanti segrete, custodi delle «fonti misteriose della vita», immerse nelle viscere della Storia, dove hanno appreso la resa della volontà, il disfarsi dell’io. Sono rimaste a de-lirare, uscendo dal tracciato, perdendosi in quella penombra. Ma questo non è un limite – è il loro di più, a cui non possono, non devono rinunciare. Che le donne siano perciò una rinascita, la possibilità di riscatto per la filosofia? María Zambrano ne è convinta.

Ridotta a uno pseudosistema di «verità dure e invulnerabili, sterili e impotenti», la filosofia ha bisogno delle donne per recuperare ciò che, in nome della luce accecante della ragione, ha preteso di espellere: dalla mistica al sogno. Sono tutte quelle forme di vita in cui si abita il proprio tempo nell’estraneità. Anche il sogno, certo, che non può essere considerato solo come oggetto di analisi. Si tratta di riconoscere che «siamo figli dei nostri sogni» ben più di quanto vorremmo ammettere. Chi può stabilire il confine tra il sogno e il pensiero? Chi può dire quanta parte abbiano i sogni nella Storia?

C’è un modo maschile di pensare: è l’idealismo dell’uomo occidentale che nella vertigine solipsistica della sua libertà ha perso «la madre e l’anima», traducendo l’indigenza che lo segna dalla nascita nell’arroganza cinica dell’adolescente avido di esistenza e di possesso. María Zambrano capovolge lo stereotipo rivolgendo uno sguardo pietoso a quella parte più infantile e perciò più crudele dell’umanità. «Questo mondo è quello degli uomini. Lei, da parte sua, sentiva di vivere oltre il mondo degli uomini».

Era sopravvissuta a tanti naufragi, a tanti addii. Anche alla separazione dal marito Alfonso Rodríguez Aldave che, rimasto nell’esilio sudamericano, non aveva voluto comprendere il dramma che l’aveva dilaniata quando lei, figlia perplessa, dovette farsi madre della propria madre, che moriva durante la lunga notte europea, in un’agonia interminabile. «Agonizzare è non poter morire a causa della speranza». In fondo lui, «l’uomo del potere, quello che comandava», aveva emesso allora il suo verdetto contro María. «E non ti condanno a morte, voglio dire: ti condanno a vivere senza di me».

Lei e Araceli, dunque, fra ristrettezze e ostacoli, sembrava avessero trovato qualche spiraglio di serenità in quella Roma degli anni Sessanta che, politicamente distratta, si preparava alla dolce vita. Ma quelle due sorelle spagnole dovevano apparire stravaganti e bizzarre. Per di più tenevano in casa un mucchio di gatti. Le “gattare”, insomma, non piacevano. Era troppo comprendere l’esigenza di ospitare la disgrazia altrui nella propria? Fu forse un vicino infastidito. E comunque il regime democristiano aveva fatto la sua parte. Certo è che nell’agosto 1964 arrivò il foglio di via per entrambe, espulse dall’Italia perché accusate di comunismo e attività sovversiva. Fu un trauma. Elena Croce tentò invano di mitigarlo.

Cercarono rifugio in un paesino svizzero sui monti del Giura, in una casa al limite del bosco. In quella vita ridotta all’essenziale, in quell’isolamento ascetico, María riandò con il ricordo al suo esilio reiterato. Non c’era partenza che non le fosse sembrata una morte. Ecco: nell’esilio affiora l’esistenza nella sua nudità. Per questo suo galleggiare senza appiglio l’esiliato turba chi crede di essere radicato. Lei si era sentita ogni volta “disnascere”, ridotta a nulla e tuttavia ri-nata, proprio grazie al rito dell’esilio, che è un partorirsi, un nascere attraverso sé. Esilio e nascita diventeranno le cifre della sua filosofia.

Scriveva, instancabile, nelle notti che trascorreva insonne, in attesa dell’alba. «L’Aurora appare in tutto quello che ho scritto e in tutto quello che ho vissuto. Si direbbe che mi piaccia la notte perché è il prologo dell’Aurora». L’attenzione per i gesti aurorali, che emerge nel libro forse più bello, “Chiari di bosco”, si riflette nell’amore per la poesia, quel sentire le cose in stato nascente, quel primo mattino del linguaggio di cui la filosofia non può fare a meno.

Dall’aereo scorse i tetti di Madrid. Era il 20 novembre 1984. Ripensò a quel 28 gennaio 1939 quando, insieme alla lunga colonna di profughi, aveva attraversato il confine sui Pirenei, lasciandosi alle spalle la Niña, la Repubblica spagnola, quella «Spagna bambina» affogata nel sangue e sepolta «più viva che mai». Non le piacque la spensieratezza immemore che plaudiva alla riconciliazione. Ma sapeva che la Storia, sebbene assetata di vittime innocenti, non può cancellare il sogno che alberga nelle sue viscere, proprio lì dove il passato si dà un segreto appuntamento con l’avvenire.