La chiamano la diaspora bolivariana. Milioni di persone a piedi scappano da un paese all’altro dell’America Latina

«Non riuscivamo a mangiare più di una volta al giorno». È questa una delle frasi che, come un disco rotto, ripetono i migranti che dal Venezuela attraversano la frontiera e arrivano in Colombia. Con un flusso a tratti più lento, spesso accelerato, prosegue quella che è stata definita la diaspora bolivariana, una delle emergenze migratorie più gravi del pianeta. Una crisi, iniziata nel 2014, che ha portato 5,9 milioni di venezuelani fuori dal Paese. Di questi circa 1,8 milioni ha deciso di stabilirsi in Colombia.

Le storie di chi attraversa la frontiera sono allo stesso tempo simili e diverse. Così come i bisogni umanitari di chi arriva e racconta la fame, la povertà, la violenza subita e che rischia di continuare a subire in Colombia, uno Stato non certo pacificato. Per far fronte a questi bisogni la ong italiana Intersos, con cui l’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo collabora, è attiva con una missione umanitaria sulla zona di frontiera dal 2019.

 

 

I caminantes
La strada che collega Villa del Rosario a Pamplona e costeggia la Cordillera Orientale è una delle rotte migratorie più battute dai caminantes, coloro che per mancanza di altri mezzi lasciano il Venezuela a piedi alla ricerca di fortuna. Quella che percorrono non è certo una strada pedonale: pericolosa, piena di curve e in cui transitano ad alta velocità migliaia di mezzi pesanti.

 

Juan, 21 anni, si è messo in cammino con la moglie e la figlia di due anni. «Voglio provare a dare un futuro migliore alla mia famiglia». Povertà, scarsità di cibo, medicinali e beni primari che costano cifre astronomiche. Tutto questo, insieme al «lavoro che anche se c’è non viene pagato» si intreccia nei racconti dei caminantes che incontriamo.

 

«Nel Paese, girano solo dollari e comprare i beni di prima necessità diventa impossibile. Il bolivar venezuelano oggi è carta», racconta Josè, anche lui in viaggio con la famiglia. E in effetti nella città di Cucuta si trovano facilmente banchini che vedono borsette, soprammobili e portachiavi realizzati con le banconote venezuelane, da vendere a qualche pesos colombiano ai pochi turisti presenti. «Anche chi ha lavoro non riesce a vivere in Venezuela perché la paga è talmente bassa che non possiamo lo stesso mangiare», continua Josè. In cammino troviamo famiglie, anziani, donne sole, giovani. La rotta non è unidirezionale: incontriamo anche gruppi che percorrono la strada per tornare in Venezuela dopo aver tentato di trovare lavoro o di stabilirsi in Colombia o in altri Paesi della regione. «Nei mesi di pandemia più acuta molti sono tornati in Venezuela perché in Colombia non avevano più lavoro. È stata, ed è, una crisi nella crisi», spiegano gli operatori di Intersos che lavorano in collaborazione con il Cisp (Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli).

 

 

Per supportare i caminantes, nella regione di Norte Santander sono attivi sei punti di appoggio. Intersos sostiene due di questi spazi, che forniscono varie tipologie di servizio: c’è il monitoraggio per il Covid-19, si distribuiscono pasti, kit igienici, aiuto medico, psicologico, alloggi per qualche notte e si organizza il trasporto umanitario per i casi più vulnerabili. Si stima che siano almeno 3-4mila i caminantes che ogni mese percorrono questa strada, mentre nei momenti di maggiore crisi sono arrivati a essere oltre 8mila. Molti hanno parenti o amici a cui appoggiarsi a Cali, a Bogotà, a Medellin, altri puntano ad arrivare in Ecuador, Cile, Perù, mentre altri ancora non hanno nessun piano specifico per il futuro. «Non avevamo altra scelta, ci abbiamo messo un bel po’ di tempo a decidere di partire e abbiamo aspettato finché abbiamo potuto», raccontano. Oltre che dalla povertà si fugge dalla violenza: «A Caracas sono attive le forze antiterrorismo che uccidono molto più frequentemente poveri o innocenti. Ci sono poi bande armate e una criminalità fuori controllo», riferisce un gruppo di ragazzi conosciutosi lungo il cammino e che ha deciso di affrontare la traversata insieme.

Essere in gruppo è utile perché durante il viaggio può succedere di tutto: c’è chi racconta della violenza subita ad attraversare la frontiera, chi è stato derubato mentre dormiva, chi ha subito abusi sessuali.

 

Le trochas e la Pace che non c’è
A dividere Colombia e Venezuela è il fiume Arauca, le cui sponde sono collegate da vari ponti internazionali. Attraversarli e arrivare in maniera legale è pressoché impossibile: visti e passaporti non vengono consegnati e la polizia di frontiera venezuelana inibisce il transito. I migranti che arrivano in Colombia utilizzano quindi le trochas, i passaggi illegali realizzati con tronchi o altri elementi di fortuna di cui il confine è pieno. Si stima che nella regione di Norte Santander siano oltre 450. Questi passaggi sono controllati da figure spesso legate a bande criminali. Da qui passano infatti, non solo persone, ma anche armi, droga e ogni genere di traffico illegale.

Il flusso di migranti è estremamente variabile e gli operatori umanitari si aspettano che da un momento all’altro si possa tornare a numeri ingenti di arrivi. Con la pandemia, il governo del Venezuela ha organizzato il transito dividendo il mese in due settimane di flessibilità, in cui i passaggi di migranti sono maggiori e le guardie di frontiera chiudono gli occhi, anche rispetto alle trochas, e due di rigidità, durante le quali il flusso è estremamente limitato. Un metodo che viene giustificato dalle autorità venezuelane come mezzo per contenere il contagio, ma nella realtà quella che si vuol contenere è la diaspora. Le piogge che distruggono le trochas, ma anche l’inasprirsi della violenza sempre pronta ad esplodere sono altri due elementi che contribuiscono a modificare il flusso.

 

Quando i migranti attraversano la frontiera sono ancora una volta estremamente vulnerabili. L’accordo di pace firmato nel 2016 tra il governo colombiano e le Forze armate rivoluzionarie non ha dato effetti su tutto il Paese: il cammino verso la pacificazione si presenta ancora molto lungo in molte regioni, in primis, sulla frontiera con il Venezuela.

 

Nel Paese sono attivi molti gruppi e cellule armate. Tra questi i guerriglieri colombiani più o meno storici: i dissidenti delle Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia), l’Eln (Esercito di liberazione nazionale), l’Epl (Esercito popolare di liberazione ), il gruppo di autodifesa Gaitanistas (una forza paramilitare), altre formazioni di narcotrafficanti come i Pelusos (che negli ultimi anni si sono guadagnati la fama di più sanguinari) e il Clan del Golfo. Molti migranti vengono reclutati tra le fila delle bande di narcotrafficanti, mentre le donne finiscono nella tratta transnazionale o vengono sfruttate sessualmente dagli stessi gruppi.  Nella zona di Arauca, da pochi mesi si è installato anche il gruppo venezuelano dei Tren de Aragua, una banda criminale che prende il nome dallo Stato omonimo.

 

Instabilità e scontri coinvolgono infatti anche il Venezuela. Nel marzo 2021 nella città di Arauquita ci sono stati undici giorni di bombardamenti tra le Forze armate nazionali bolivariane del Venezuela e i dissidenti delle Farc nello stato venezuelano di Apure. Scontri che hanno portato migliaia di persone ad entrare in Colombia per scappare dalla guerriglia. La fuga sulle canoe che fanno la spola tra il fiume nella città di frontiera è stata rocambolesca. «Quando siamo fuggiti era buio, il rumore dei bombardamenti fortissimo e non so cosa mi ha dato la forza di prendere il mio bimbo al volo e saltare su una canoa. Ero incinta di sette mesi. Quando sono arrivata sono stata portata subito in ospedale: se restavo in Venezuela sia io sia il mio bambino saremmo morti. Lui ha avuto un blocco respiratorio alla nascita ed è stato curato qui», racconta Leila, una delle donne che Intersos sostiene.

 

Anche Maria, un’altra delle beneficiarie dei progetti di protezione, è fuggita dagli scontri quando era incinta e ora vive nella paura che possano ricominciare. «In molti pensano che questa calma non durerà. Qui vivo abbastanza bene, in Venezuela avevo paura anche a stendere il bucato».

 

Insediamenti informali
La zona di confine è costellata di insediamenti spontanei abitati sia da sfollati colombiani dalla guerriglia e ritornati, sia da venezuelani. Negli insediamenti la vita è spesso difficile: molte case non hanno luce e acqua, il lavoro manca e si sopravvive alla meglio. In questo scenario tra le vittime privilegiate ci sono le bambine e le ragazze, prede facili per matrimoni precoci, tratta, violenza.

 

 

Molti sono i venezuelani che lamentano episodi di razzismo e xenofobia, ma non mancano episodi di solidarietà. La signora Yaneth ha aperto da alcuni anni la porta della propria casa per fornire ospitalità ai «fratelli venezuelani» in difficoltà. Il barrio El Progreso è stato a lungo abitato da guerriglieri, mentre oggi è diventato un rifugio per moltissimi venezuelani: tra le 2.700 famiglie che popolano il quartiere, sono 350 quelle che arrivano dal Venezuela. Intersos sostiene “el albergue” di Yaneth, che è arrivato ad ospitare anche venti persone. «Metto a disposizione un tetto, due lavandini, due docce e se abbiamo cibo a sufficienza lo dividiamo», spiega con una semplicità disarmante.

 

Da sempre, su questa come su altre frontiere, le storie di chi fugge e arriva per una nuova vita si uniscono a quelle di chi in quella sponda del confine è da poco ritornato. Nemmeno vent’anni sono passati da quando erano i colombiani, in fuga dalla guerriglia, a cercare rifugio in Venezuela. Uno scambio di vite che continua e resta.