Per millenni gli abitanti di questa landa, territorio danese, sono stati pescatori nomadi. Ora che le temperature sono sempre più miti rischiano di perdere il lavoro, le fabbriche e l’identità

Impossibile parlare di cambiamento climatico senza parlare di persone. Le persone, gli esseri umani, il cambiamento climatico un po’ lo hanno causato, un po’ lo subiscono. Ma soprattutto lo vedono, lo sentono arrivare. Sia che abitino nelle città, sia che, come gli Inuit di Groenlandia, siano prigionieri di un’isola che non è più loro e la cui terra si sta, letteralmente, disfacendo sotto i loro piedi.

 

Per questo, se volete sapere cos’è il cambiamento climatico, forse dovete chiedere a un Inuit. Lui potrebbe dirvi come andrà a finire, perché lo vede, ogni giorno, il ghiaccio che si scioglie, le vede ogni giorno le trivelle che sbuffano fumi e cercano di tutto, dal petrolio alle terre rare. Vede i temporali, che a quella latitudine prima non si erano mai visti, perché in teoria lassù fa troppo freddo per tuoni e saette.

Ma soprattutto, un Inuit, potrebbe dirvi come è iniziata, questa solfa del cambiamento climatico e, più ancora, del cambiamento delle loro vite.

 

Fino agli anni Cinquanta la Groenlandia era solo un pezzo di terra e ghiaccio incastrato tra l’Europa e l’America. Era una colonia danese, anche se la Danimarca non se ne curava più di tanto. La popolazione era quasi tutta indigena e nomade, a parte qualche ufficiale danese e qualche pastore cristiano, e viveva per lo più di pesca e caccia. Fino agli anni Cinquanta, di case in Groenlandia quasi non ce n’erano, se non poche decine, concentrate in piccoli centri sulla costa.

 

Gli Inuit, per lo più, passavano l’inverno nelle buche, ossia delle specie di fosse che scavavano nella neve e che, per i mesi più rigidi dell’anno, li riparavano dal freddo e dalle tempeste di neve. In quei mesi, oltre a cacciare e pescare, quando possibile, gli Inuit si occupavano di conciare pelli e realizzare manufatti, piccoli oggetti di artigianato che poi vendevano nei mesi più caldi, quando ricominciava la vita di comunità. Una forma di economia primitiva ma radicata, che però dopo la Seconda guerra mondiale saltò quasi del tutto. Nel 1953, la Danimarca (sotto pressione delle Nazioni Unite) pose fine allo status di colonia dell’isola e la rese una contea, al pari delle altre. Questa cosa, pensata in teoria per migliorare lo status dei groenlandesi, rendendoli cittadini e non più coloni, per paradosso, portò a una presenza ancor più capillare e invadente della madrepatria danese che in quegli anni si fece carico di modernizzare l’isola.

 

 

Questo significò, di fatto, cambiare la Groenlandia. Da un lato le consentì di agganciare il treno, indispensabile e cruciale, del progresso, dall’altro ne distrusse per sempre identità, storia e stile di vita, trasformando gli abitanti e rendendo operai inurbati quelli che erano pescatori nomadi.

 

A stabilire come modernizzare l’isola fu la commissione Grønlandskommissionen, nella quale sedevano 105 persone, delle quali, però, solo 12 erano groenlandesi. La volontà della commissione, alla luce di evidenti ragioni economiche, fu quella di portare la Groenlandia fuori dalla antichità immobile nella quale viveva da sempre, attraverso la costruzione di nuove e grandi industrie per il trattamento e l’inscatolamento delle enormi quantità di pesce che venivano pescate. L’idea era trasformare la pesca groenlandese da tradizionale a industriale, con barche a motore, grandi reti e, soprattutto, fabbriche per la trasformazione del pescato.

Lì dove nascono fabbriche però, nascono anche città: alle fabbriche e alle barche però servivano operai e pescatori che vivessero tutti nella stessa zona, vicina al loro nuovo posto di lavoro, così da poter rispettare turni e orari. In pochi mesi migliaia di Inuit (all’epoca la popolazione totale dell’isola era di circa 20mila persone) furono convinti a lasciare la loro vita nomade fatta di freddo e caccia alla foca, per diventare operai e trasferirsi in appartamenti caldi, con muri, pavimenti e acqua corrente. L’esperimento non funzionò. O meglio funzionò perché alla fine, con il tempo, case e palazzi presero piede e perché, davvero, non sarebbe più concepibile oggi, per gli Inuit, vivere senza elettricità, cure mediche, tecnologia, cellulari o frigoriferi. Ma le prime fasi di questo progresso deciso per decreto e calato dall’alto non sono state né semplici né indolori. Una buona metafora di come tutto questo ha (non) funzionato potrebbe essere la storia del Block P: il più grande palazzo di Danimarca, costruito tra il 1965 e il 1966 a Nuuk, capitale della Groenlandia.

 

Un enorme parallelepipedo in calcestruzzo di cinque piani per 200 metri, che ospitava 350 appartamenti. Lì, per alcuni anni, visse l’1 per cento della popolazione groenlandese. Solo che chi lo aveva pensato e disegnato, lo aveva concepito per i danesi, non per i groenlandesi. E dunque le case, invece che essere ospitali, calde e accoglienti, si rivelarono una specie di budello senza uscita. I corridoi e le porte erano troppo stretti perché fosse possibile camminarvi con i pesanti abiti di pelliccia che usavano gli Inuit. Le stanze erano troppo anguste per riporvi gli ingombranti strumenti di caccia o di pesca, che così finirono per essere riposti in pianerottoli e vani scala, ingombrandoli fino a renderli di fatto impraticabili.

Non solo. Poiché molti Inuit, per quanto inurbati, continuavano comunque a cacciare e pescare, usavano le vasche da bagno per eviscerare pesce e foche, con il risultato di intasare, praticamente da subito, tubi e scarichi fognari. In breve tempo, dunque, il palazzone che doveva essere il simbolo della nuova Groenlandia moderna, divenne una specie di terra di nessuno, dove nessuno voleva stare e che nessuno amava: degradato, maleodorante e sporco. Un simbolo sì, ma dell’opposto che voleva rappresentare: non una Groenlandia nuova, ma una Groenlandia abbandonata e dimentica di sé.

 

Ai primi palazzi, pian piano, se ne aggiunsero altri, per meccanici, minatori, insegnanti e tutto quel che, all’epoca, poteva servire nelle nuove, e mai viste da quelle parti, città. Una rivoluzione epocale consumata nell’arco di meno di una generazione. Un affare, in teoria. Un trauma, in pratica.

 

Le persone Inuit, si ritrovarono nel giro di una manciata di mesi a vivere in un mondo che a loro sembrava la luna, dove non serviva più cacciare il cibo, ma dove lo si comprava, con il denaro guadagnato confezionando cibo per altri; dove non si viveva più nel gelo e con il gelo ma dove il calore dipendeva dai caloriferi; dove la luce non arrivava più dal sole, ma dagli interruttori; dove non si facevano lunghissime sessioni di caccia e il tempo sembrava essersi, insieme, moltiplicato e svuotato, buono per essere riempito, solo dopo 1982, dalla televisione.

Così, entrando di botto nel ventunesimo secolo, gli Inuit agganciarono sì quella benedizione che è il progresso, fatto di cure mediche, informazioni istruzione, tecnologia, ma persero se stessi, persero la loro storia, con il risultato di sentirsi esuli del loro passato, inadeguati al loro futuro e ospiti del loro presente.

Un limbo temporale e spaziale che i groenlandesi non hanno mai davvero risolto e superato e che viene considerato, almeno in parte, responsabile del grave disagio psicologico e sociale che pervade l’isola. Uno dei luoghi al mondo in cui più alto e dannoso è il consumo di alcol pro-capite (all’apice della crisi, ora in parte risolta, il consumo di alcolici era arrivato a 22 litri a testa l’anno). Anche l’obesità è diffusa (ne soffre il 25 per cento della popolazione femminile e il 19 per cento di quella maschile) perché gli organismi Inuit arrivano da millenni di freddo e di dieta quasi esclusivamente proteica e dunque stentano a bruciare gli zuccheri e i carboidrati che ora mangiano, nelle loro calde case e nelle loro vite piuttosto sedentarie.

Problemi peggiorati con la crisi dell’industria di trasformazione del pesce, le cui fabbriche antiquate sono state via via dismesse. Per non parlare della completa assenza di strade (ce n’è solo una, lunga circa 80 chilometri) e delle proibitive condizioni atmosferiche che il cambiamento climatico ha reso, se possibile, peggiori. Fatto sta che la difficile scolarizzazione e la necessità di molti giovani istruiti di lasciare l’isola per andare in Danimarca o in Canada, fa sì che circa il 16 per cento della popolazione viva sotto la soglia di povertà. Una fetta di popolazione di cui non fanno parte i pochi (anche se in crescita) Inuit che sono riusciti a inserirsi nell’economia dei servizi e del terziario, legata soprattutto all’industria estrattiva e del turismo, ma di cui fanno parte gli ex pescatori trasformati prima in operai e ora in disoccupati. Anche la violenza domestica è diffusa, endemica, quasi normale.

Il risultato è che la Groenlandia, oggi, è il Paese con il più alto tasso di suicidi al mondo: 83 persone ogni 100 mila abitanti, quasi due persone a settimana, in genere ragazzi in età scolare o di non più di 25 anni. Per dare un esempio di quanto, nonostante i progressi fatti negli ultimi anni, la situazione sia e resti seria, basti sapere che lo scorso settembre il sindaco della città di Tasiilaq (3mila abitanti) ha deciso un divieto assoluto di vendita di alcolici per almeno due settimane, dopo che in soli tre giorni erano stati registrati due suicidi, quattro tentativi di suicidio, uno stupro e 15 episodi di violenza domestica.

 

Un quadro, questo, di equilibrio sociale estremamente fragile e di sviluppo senza progresso, su cui incombono gli effetti del cambiamento climatico. Effetti che lì sono più veloci ed evidenti che altrove, perché lì per millenni l’intera vita è ruotata attorno al ghiaccio. Ora che il ghiaccio se ne sta andando, e che una vita urbana decente non è ancora arrivata al suo posto, ai Groenlandesi potrebbe non rimanere più niente.