Al centro della città simbolo della resistenza curda all’Isis doveva nascere un memoriale del conflitto. Ma le macerie sono la casa di chi ha perso tutto sette anni fa

Rukane si siede su una panchina nella piazzetta di fronte casa, in un venerdì pomeriggio, giorno di riposo in Siria, osservando un po’ malinconica i suoi figli e nipoti giocare. La panchina, in verità, è un enorme masso dove semplicemente poggiarsi, probabile che in origine sia stato un pilastro di un palazzo crollato. I bambini sono disposti in cerchio e ridono fantasticando sulle loro invenzioni, anche loro seduti sulle macerie di Kobane. I piccoli non lo sanno, ma stanno giocando sopra i resti di un “Museo”. Rukane, 30 anni, foulard colorato appoggiato sui capelli, invece lo sa benissimo. Ma dice che insieme alla sua famiglia «non abbiamo nessun altro posto dove andare».

Lo chiamano “Museo Kobane” ed è il quartiere centrale della città divenuta il simbolo della resistenza curda contro l’Isis. La municipalità di Kobane ha deciso di delimitare quest’area invece che ricostruire gli edifici per renderli nuovamente abitabili, a futura memoria della guerra e della resistenza nella città. A tracciare parzialmente i confini del Museo una ringhiera e una cancellata che in futuro potrebbero costituirne il perimetro. Al termine dei lunghi mesi di battaglia contro l’Isis, tra il settembre 2014 e il gennaio 2015, il 70 per cento della cittadina era completamente distrutto. La maggior parte della popolazione era fuggita verso la Turchia che aveva aperto temporaneamente il passaggio. Attorno a Kobane, l’Isis e Jabhat al-Nusra impedivano ai profughi di trovare riparo altrove. Dopo la lunga resistenza e l’esilio in Bakur, la regione curda del sud della Turchia dove in tanti hanno vissuto in campi profughi in quei mesi, una buona parte di cittadini è tornata. Nel frattempo però, dopo diverse riunioni, i consiglieri comunali avevano deciso che quella parte demolita della città sarebbe rimasta tale e quale.

 

Sono passati sette anni e tra macchine distrutte, palazzi sventrati, lanciarazzi disposti in fila come se la battaglia fosse appena finita, se non fosse per la ruggine e qualche maceria ammassata in forma piramidale per liberare le strade, il cuore della cittadina frontaliera è rimasto davvero così com’era. Ogni tanto spunta un albero in mezzo, segno di una vegetazione precedente alla devastazione che ha resistito. L’unica cosa che la municipalità non aveva calcolato era che, se non riabitata dai suoi cittadini originari a cui sono state affidate terre e nuove case, il “Museo” sarebbe stato abitato dagli sfollati siriani che fuggono da altre province della Siria e convergono verso Kobane. Come per l’appunto Rukane, curda siriana della provincia di Aleppo. «Siamo fuggiti dalla guerra e dal regime», racconta, riferendosi al ritorno del regime siriano nelle zone a lungo occupate dai ribelli o dalle forze curde. «Se vivessimo nelle zone controllate da Damasco, mio fratello sarebbe costretto ad arruolarsi con l’esercito governativo e trovarsi magari un giorno a combattere contro i curdi». Farmen, il fratello, lavora a un panificio di Kobane. Dalla farina sui pantaloni e sulle ciabatte sembra sia tornato da poco. «Siamo persone umili, pacifiche, non voglio fare il militare, ci arrangiamo a vivere qua». Rukane, suo fratello Farmen e la moglie Afa, di 22 anni, non sarebbero contrari all’idea del Museo. Ma si guardano intorno ridendo e rispondono: «L’hai visto che bello il Museo? Tutto distrutto. Per noi che ci viviamo…» La fortissima crisi economica ha ulteriormente peggiorato le condizioni di milioni di cittadini siriani come loro che da dieci anni ormai si spostano per trovare un luogo meno pericoloso di quello di partenza dove sopravvivere.

 

Faiza Abdi è co-presidente del Consiglio legislativo del cantone Eufrate, dove si trova la città di Kobane, parte delle istituzioni curdo-arabe dell’Amministrazione autonoma del Nord-Est della Siria (Aanes). Ha iniziato a lavorare nel gennaio 2014 e nonostante anche lei abbia dovuto lasciare la sua casa per rifugiarsi in Turchia, non ha mai smesso di lavorare, come dice lei, «per il mio popolo», la gente di Kobane e del cantone in cui amministra. «Quando siamo tornati dalla Turchia, la città era devastata dall’Isis, ed è stato molto difficile lavorare», racconta seduta nel suo ufficio. «La popolazione era distrutta psicologicamente, neanche io ho ritrovato più la mia casa».

È stato allora che hanno deciso, nonostante la fatica del momento, di compiere una scelta simbolica per la città. «Daesh (acronimo arabo per Isis, ndr) è stato sconfitto per la prima volta a Kobane e quel luogo di intensi combattimenti doveva e deve restare come memoria per le generazioni future, come testimonianza della storia, contro l’oppressione. Per questo abbiamo deciso di creare il Museo». La preparazione di un vero e proprio museo ha bisogno di tempo e soprattutto di soldi che in questo momento Kobane non può dedicargli. Deve pensare al presente. «In primis, ci siamo occupati di dare terra e soldi a chi vi abitava precedentemente in modo che la zona rimanesse vuota e gli abitanti avessero una nuova dimora. Un domani vorremmo che ogni strada, edificio, appartamento fosse accompagnato dalle targhe con le date, i nomi e i racconti dei combattenti e sopravvissuti, oltre ai segni che i terroristi dell’Isis hanno lasciato per non dimenticare la loro ideologia estremista».

Perché non si ripeta più. L’idea di Faiza e degli altri consiglieri della città è che in avvenire il Museo Kobane abbia un vero e proprio percorso per i visitatori con video e foto che li guidi, con i testimoni insomma delle storie di resistenza. Lei immagina anche che i suoi viali possano essere riempiti di alberi e rose, per ricordare anche i martiri della battaglia. Oggi però al posto delle rose, ci sono ancora i bimbi che giocano nella polvere, lavoratori stagionali e perfino dei soldati, quelli che abitano in campagna e trovano un appoggio temporaneo al Museo nei giorni in cui sono di stanza in città. Insomma, un Museo abitato da chi non può permettersi di pagare un affitto e si accontenta di pagare un temporaneo accesso a qualche generatore per avere acqua e luce, qualche servizio. La municipalità chiude un occhio sulla loro presenza là, del resto non avrebbe le risorse per riallocare tutti i bisognosi da diverse province siriane.

Shawas e Ali, 19 e 29 anni, sono degli operai di Homs che hanno trovato rifugio a Raqqa. Vengono a Kobane due-tre mesi proprio per lavorare nel settore edilizio e mettono su qualche casa anche all’interno del Museo. Ma anche loro, con le misere paghe di operaio, non possono permettersi di pagare un alloggio. Vivono dunque nello stesso posto dove lavorano. Solo che a volte, informalmente, rimettono su qualche appartamento dove si stabiliranno altri profughi. Loro, invece, finiti i lavori tornano a Raqqa, ma vivono in un campo, sotto una tenda. «È giusto che sia così…un ricordo per le generazioni future», dice Ali, abituato a vivere in maniera precaria da operaio stagionale. «Almeno posso dire di aver dormito in un Museo», ironizza, anche lui seduto, come i compagni di lavoro, su un blocco di cemento.

Neanche un chilometro più avanti, a Kobane, c’è un “vero” Museo, ed è quello dei Martiri, una casa-padiglione dove si trovano le foto di tutti i combattenti e le combattenti delle Unità di difesa del popolo (Ypg) e delle Unità di protezione delle donne (Ypj). A sorvegliarlo c’è Jalal, che custodisce quel luogo come se ci fossero le tombe dei suoi familiari. «Sono impiegato qui solo di giorno, fino a due anni fa lo ero anche di notte, ma non ce la faccio più a reggere», racconta sospirando. «Il mio stipendio è pagato dall’Amministrazione autonoma, sono 280.000 lire siriane che un tempo potevano bastare, oggi con la crisi economica non più. Siamo sette persone nella mia famiglia». Dopo un anno in Turchia a causa dell’avanzata dell’Isis e poi della battaglia, ha trovato la casa in piedi ma senza mobili, presume li abbiano rubati i militanti nella ritirata. «Tutto è diventato caro in Siria, ci dobbiamo accontentare. Ma se siamo in vita lo dobbiamo a questi martiri, sono fiero di fare da guardia al Museo».

I frequenti attacchi della Turchia fanno presagire una nuova invasione. Le forze della Syrian national army (Sna), sostenute dalla Turchia, si dispiegano in maniera provocatoria lungo le linee del fronte del nord-est della Siria, già assaltato pesantemente tra l’ottobre e il novembre del 2019, dopo la decisione di Trump di un parziale ritiro delle truppe americane, alleate delle Forze siriane democratiche dell’amministrazione autonoma. Contemporaneamente, un attacco drone da parte della Turchia, ha colpito un veicolo militare nel quartiere Hilêliye di Qamishlo, uccidendo tre persone. Kobane non è esente da queste minacce. Tutto il nord-est della Siria lo è. «Ad essere sotto attacco non è una o l’altra cittadina, tutti lo siamo: sotto attacco è il nostro progetto politico di confederazione democratica e convivenza pacifica tra diverse etnie», dichiara Bozan Khalil, co-presidente a Kobane nel Consiglio della sicurezza. «Dietro questa minaccia ci sono le prossime elezioni politiche in Turchia, ma noi resisteremo, non ce ne andremo da qua», conclude. Invece qualcuno se ne va. E da Kobane, Ferhad, ha deciso di raggiungere la Bielorussia via Erbil, e poi la Polonia, dove però in fuga da un check-point della polizia polacca, è morto in un incidente stradale. Suo cugino Rashwan, anche lui di Kobane, ha raccontato a L’Espresso che la fuga verso l’Europa era stata proprio condizionata dalla paura di un imminente attacco turco.

Da Kobane, la Turchia con il suo muro e le torri di avvistamento è a un passo. Faiza, dopo una lunga giornata di lavoro, pensa al Museo Kobane, per la sua amata città: «Un giorno verrete a visitarlo. I popoli devono farsi forza a vicenda. Verrete a conoscere il nostro che vuole vivere in pace e dare testimonianza della sua lotta contro il terrorismo mondiale».