La giustizia egiziana lo ha scarcerato ma non lo ha assolto. Perché il regime vuole ricordarci che può cancellare la punizione e lasciare la colpa

La giustizia egiziana ha ordinato il rilascio di Patrick Zaki, studente, ricercatore presso l’Eipr (Egyptian Initiative for Personal Rights). Viene rilasciato dopo 22 mesi di detenzione, reiterata ogni mese e mezzo. Una tortura nell’ingiustizia. Scarcerato ma non libero, Zaki. Deve tornare a processo il primo febbraio. «Non è stato assolto», ribadisce la corte di Mansoura. A monito, pare di capire, verso questo giovane che ha la colpa di osservare, scrivere e raccontare i diritti rivendicati e quelli traditi. E monito anche verso di noi. 

 

La corte di Mansoura non sta solo dicendo a Zaki che non è finita, sta ricordando a noi, all’Europa culla dei diritti, che può aprirsi la porta della cella, può affacciarsi una folata di libertà a favore di telecamera, tweet e dichiarazioni del politico di turno, ma che la lezione non è finita nemmeno per noi. Perché a restare inalterata, anche se la punizione decade, è la colpa. Sul tempo di Zaki, come prima è stato il corpo di Giulio Regeni, si scrive la ricattabilità dell’Europa e insieme le grandi domande che questa triste vicenda ci restituisce: cos’è la punizione? E: perché puniamo? 

 

 

Il sociologo francese Didier Fassin, nel suo saggio “Punire: una passione contemporanea”, ci ricorda quanto negli ultimi decenni le nostre società siano diventate più repressive nonostante questo non abbia alcun legame diretto con lo sviluppo della delinquenza e della criminalità. La punizione, dice Fassin, è diventata non solo l’unico mezzo della legge, ma anche il nostro standard morale ed emotivo.

Accettiamo la punizione di tutto ciò che ci spaventa, che siamo incapaci di gestire. La giustizia egiziana pare averlo capito più di noi. Ci ricorda, con la sua decisione, che si può sospendere la pena che è il carcere. Ma non la colpa, che è la libertà.