Il giovane cronista negli anni Sessanta simpatizzava naturalmente per le rivoluzioni anticoloniali. E poi quei regimi sono diventati autoritari

Ho visto nascere, come i miei coetanei del secolo scorso, tante nuove nazioni, o meglio tanti Stati indipendenti che prima erano colonie. Il Novecento è stato ricco di rivoluzioni. Alcune erano definite tali perché il loro obiettivo era di liberarsi da regimi impopolari, inefficienti o corrotti, al potere in Paesi già indipendenti. Nei due casi, pur cercando di attenersi ai fatti, il giovane cronista era in generale favorevole ai “rivoluzionari”, perché anticoloniale o incline ad appoggiare chi si opponeva a regimi autoritari. E al contrario di non pochi colleghi più anziani non vedeva nel colonialismo un veicolo di civiltà verso popoli “attardati” (del Terzo Mondo, si diceva). La separazione tra “conservatori e progressisti” resterà netta sui principi di base, ma ha subito crisi profonde, perché i principi degli uni e degli altri non si confondono, ma capita che non si contraddicano, a contatto con la realtà e col tempo. I regimi nati da rivoluzioni, alle origini considerati progressisti, sono diventati autoritari. Pur dichiarandosi fedeli ai momenti eroici.

 

Nei primissimi anni Sessanta Cuba era la culla di una rivoluzione appena nata, che non aveva ancora avuto il tempo di risanare l’isola organizzata per accogliere turisti americani. I casinò erano ancora aperti, anche se i croupiers avevano al collo foulards con i colori nazionali, e invece di scandire il classico «i giochi sono fatti», dicevano «patria o muerte». E le posadas erano ancora aperte, anche se non c’erano più turisti gringos. Erano strade circolari sulle quali si affacciavano porte che inquadravano ragazze più nude che vestite. Insomma, erano bordelli accessibili in automobile. Le spiagge migliori erano riservate ai bianchi. Insieme a Saharita, segretaria di Raoul Castro e nipote del ministro degli Esteri, andammo a visitarne una affacciata sul mare “infine liberato”. Saharita era commossa guardando la sua spiaggia da quel giorno aperta a bagnanti insoliti, rumorosi, e chiaramente proletari, con la pelle scura. Pensavo fosse contenta di quello spettacolo “rivoluzionario”. Una settimana dopo non rispondeva più al telefono. Era fuggita negli Stati Uniti per sempre. E così penso abbia fatto lo zio ministro. La rivoluzione mostrava la sua faccia e chi s’era illuso, tra i borghesi amici di Saharita, cercava di svignarsela in Florida dove viveva e vive ancora una seconda Cuba, quella anticastrista.

 

I controrivoluzionari addestrati dalla Cia sbarcarono nella “Baia dei porci” (aprile 1961), e lì, nelle paludi cubane, furono uccisi o fatti prigionieri e poi giudicati in massa nello stadio dell’Avana. Dopo avere sbaragliato gli avversari, Fidel Castro celebrò l’avvento della Repubblica socialista (poi diventata comunista) con una sfilata in cui risaltavano le soldatesse con il mitra e la camicetta generosamente sbottonata. Sessanta anni dopo, lo scorso quindici novembre, le strade dell’isola erano deserte. I cubani quel giorno erano stati messi in castigo. La marcia pacifica, prevista dai gruppi di opposizione (in testa il movimento “Archipielago”), per chiedere un cambiamento della politica e protestare per la mancanza di generi alimentari («contro la fame»), era stata proibita. Le strade deserte, non solo quelle dell’Avana, il quindici novembre erano percorse da soldati e da partigiani del regime. Chi non era né l’uno né l’altro non poteva uscire di casa. I pochi che hanno osato sono finiti spesso nelle carceri già affollate. Quel giorno le città, sessanta anni fa in festa, erano silenziose.

 

Gli ultimi avvenimenti cubani, simultanei alla visita in Algeria del nostro presidente della Repubblica, mi hanno portato spontaneamente con la memoria al Paese dell’Africa settentrionale dove, con intervalli passati anche a Cuba, ho seguito la guerra di indipendenza (1954-1962). Un conflitto, quello algerino, costato al Paese, secondo varie fonti, un milione di morti.

Al contrario di Cuba, che era già uno Stato indipendente, l’Algeria era con varie formule un possedimento francese dal 1830. Il giorno in cui diventò un paese libero ero in compagnia di Kateb Yassin, il grande scrittore algerino. Eravamo seduti su una gradinata, nella città in festa. Mi accorsi che lui piangeva. Piangeva perché non era quella la pace che si aspettava. In cui sperava da anni. Il suo paese non sarebbe stato la repubblica democratica sulla quale contava. Gli dissi che già l’indipendenza era una conquista. Ma lui continuò a scuotere la testa. Ripensai a quel giorno quando cinque anni dopo l’esercito, già potente anche negli affari interni, fece un “raddrizzamento rivoluzionario”. Vale a dire un colpo di Stato. Ce ne furono poi altri. E l’esercito è sempre, di fatto, al potere. La rivoluzione algerina si è appannata, anche se a tratti ha ripreso con fatica, e tra tanti cronici abusi, a rispettare alcuni diritti essenziali. Mi capita di accostare spesso il destino di Cuba a quello dell’Algeria, tanto lontane e diverse una dall’altra: non è la ragione, ma il sentimento d’amicizia per l’una e per l’altra, nato vivendo momenti difficili della loro esistenza.