La generazione Greta contro i governi. La corsa alla presidenza della Repubblica e il totoquirinale. Le contese dei nostri tempi non sono più (solo) tra sinistra e destra o elite e popolo. Ma riguardano gli anni che passano

È il tempo, l’unico vero campo di battaglia in cui si decide il nostro destino politico. Non la contesa tra destra e sinistra, che ha tenuto banco per un paio di secoli. E neppure la disputa tra l’alto e il basso, le élites contro il popolo, che è andata tanto di moda negli ultimi anni. Tutte cose che non si archiviano, ovviamente. Ma che andrebbero interpretate soprattutto per la quantità di anni che incorporano. Quelli che hanno alle spalle e più ancora quelli che ci promettono e/o ci minacciano.

 

È una disputa sul tempo, appunto, quella che oppone la generazione di Greta ai governi riuniti a Glasgow. Tra gli uni che il tempo faustianamente lo vorrebbero comperare anche a prezzo della loro anima, e gli altri che correndo al modo del Bianconiglio annunciano che di scorte di tempo non ce ne sono rimaste più.

 

Ed è una disputa sul tempo anche, nel nostro piccolo, la corsa verso il Quirinale. Una corsa cominciata molto prima e destinata a non finire neppure quando, a febbraio, verrà eletto il tredicesimo capo dello Stato. Già, perché egli avrà il destino di durare per sette anni, di attraversare indenne almeno due campagne elettorali, di vedere l’avvicendarsi dei governi e delle stagioni altrui. E dunque si suppone che ne ricaverà la fortuna e la virtù di vedere dall’alto e da fuori (ma non troppo) gli affanni delle tribù che a fondo valle si disputano territori effimeri attraverso concitate battaglie la cui notazione nei libri di storia sarà sempre assai dubbia.

 

È la scelta tra il respiro e l’affanno, quella che divide una politica dall’altra. E che ne segna le gerarchie. Chi ha la virtù, o almeno la possibilità, di guardare le cose in prospettiva ha dalla sua il tempo. E chi invece deve affannarsi per guadagnare ogni giorno la sua porzione di pane quotidiano, il tempo lo ha contro, e dunque si trova a doverlo rincorrere. Il più delle volte col fiatone, come si vede.

 

Non è solo una banale questione di durata del mandato. Semmai è il fatto che il capo dello Stato gode, per così dire, di un incedere presidenziale. Egli non corre, non insegue, non si affanna. Il più del suo tempo è speso in ritualità e in una attenta ricognizione del campo dove gli altri giocano la loro partita. Il suo tempo però, qui è il punto, non ha sempre la stessa densità. È un tempo vario e variabile. E c’è sempre un momento, un attimo, una manciata di ore in cui egli è chiamato a fare la differenza. E in quel frammento si gioca per così dire il senso dell’intero settennato.

 

Così, il presidente finisce per avere due vantaggi rispetto ai suoi grandi elettori. Quello di non sprecare troppo tempo in una quotidianità dispersiva. E anche però quello di vedere condensarsi di tanto in tanto il suo tempo dilatato così da poter fare in un attimo la differenza che la politica sottostante non riesce a fare negli anni del suo infinito girare a vuoto.

 

Dunque, mentre il tempo della politica è quasi sempre uniforme, e si è in campagna elettorale oppure congressuale anche solo quando ci si affaccia sui social o alla televisione per dire la banalità di giornata, il tempo delle istituzioni invece è paradossalmente più vivace o meno, più intenso o meno, più cruciale o meno a seconda di circostanze che ogni presidente interpreta secondo il suo personalissimo codice.

 

Insomma, il presidente cammina, sia pur compassato. Ma camminando va da un punto all’altro. E ogni tanto le circostanze fanno sì che perfino lui si trovi a fare un salto, uno scatto, una improvvisa ma cruciale digressione. Mentre il circo politico che gli gira intorno, gira anche intorno a se stesso. E pur facendo mostra di affrettarsi ripercorre ogni giorno gli stessi sentieri. Si stanca moltissimo, a quanto pare, ma non fa quasi mai una gran strada.

 

Forse è per questo che tutti sognano di andare al Quirinale. Per camminare più in fretta, stancarsi di meno e andare da qualche parte. E cioè fare tutte quelle cose che nella loro vita di prima sono riuscite solo in piccola parte. Chi di loro arriverà sul Colle non avrà più potere spicciolo degli altri e si avvierà a condurre una vita meno vivace, più sorvegliata di quella a cui era abituato. Ma finalmente avrà dalla sua il tempo. Che è la vera chiave nascosta del potere politico dei nostri giorni.