Malesia, Indonesia, Vietnam. Sono molti i paesi a temere che la presenza di Usa e Gran Bretagna nei loro mari possa portare nuovi conflitti

Nel 2018 il professore della John F. Kennedy School of Government dell’Università di Harvard, Graham Allison, ha pubblicato un libro dal titolo “Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?” (Fazi editore) nel quale si chiedeva in quale maniera Cina e Usa avrebbero potuto evitare un conflitto armato, a causa del processo di crescita di Pechino e del ridimensionamento delle ambizioni globali americani.

 

Così come Allison, negli anni passati, non pochi analisti avevano sottolineato il rischio che l’area del Pacifico, tra porzioni di mare e isolotti (quasi sempre disabitati) contesi tra Cina e il resto dei paesi asiatici, potesse trasformarsi in una pericolosa Santa Barbara, a fronte del riarmo e transito di navi da guerra. Si trattava di una preoccupazione confermata dal comportamento sempre più assertivo della Cina e dal costante interesse degli Stati Uniti a difendere le richieste dei paesi asiatici suoi alleati.

 

L’Aukus, l’alleanza strategica e militare in funzione anti cinese tra Australia, Stati Uniti e Regno Unito, annunciata dai tre paesi all’inizio di settembre, è la conferma di una tendenza in atto da tempo e nella quale Canberra, Londra e Washington sembrano aver superato un confine che appariva ancora inesplorato. L’annuncio non è di certo passato inosservato, anzi: la dotazione di sottomarini a propulsione nucleare - elemento saliente dell’accordo - all’Australia ha attirato le ire francesi, perché Parigi si è vista cancellare una commessa proprio nei confronti di Canberra per sommergibili diesel; l’Unione europea è stata colta alla sprovvista perché l’annuncio dell’accordo è arrivato in simultanea con la presentazione della propria strategia per l’Indo-Pacifico.

 

Se la Cina ha letto gli eventi come una chiara operazione per contenere le proprie ambizioni, in Asia l’Aukus è stato invece accolto con diversi sentimenti. L’aggressività cinese (esemplare nei confronti dell’Australia, martoriata da boicottaggi commerciali dopo la richiesta di Canberra di un’indagine indipendente sulle origini del Covid-19) è sgradita a molti, alleati di Pechino compresi.

 

Ma se l’India ha letto con soddisfazione l’impegno americano di contenimento delle mire di Pechino, altri paesi hanno reagito in modo più ambiguo. In generale, come sostenuto da Sam Roggeveen del Lowy Institute, l’Aukus innanzitutto dimostra che lo scetticismo riguardo all’idea di una nuova “guerra fredda” voluta dagli Stati Uniti è stato superato da un passo importante, con il quale Washington sembra invece lanciarsi in un confronto - potenzialmente - militarizzato; da questo però discende una constatazione molto rilevante per l’Asia, perché non si può ignorare il fatto che le percezioni dei paesi del sud-est asiatico e degli Usa non coincidono su quale genere di minaccia sia rappresentata dalla Cina. Su The Diplomat l’analista Sebastian Strangio ha fatto giustamente notare che la regione, mentre teme un futuro contrassegnato dall’egemonia cinese, ha altresì poca fiducia nell’impostazione dello scontro scelta dagli Usa «come parte di una battaglia globale tra democrazia e autoritarismo, una cornice che è stata ripresa proprio dall’Aukus». Indonesia e Malesia, ad esempio, considerati “vicini” a Pechino hanno posto il problema del rischio di una corsa agli armamenti nella regione, così come il Vietnam (che da tempo si è riavvicinato agli Stati Uniti), il cui ministro degli esteri Le Thi Thu Hang sull’Aukus ha specificato che «la pace, la stabilità, la cooperazione e lo sviluppo nella regione e nel mondo sono l’obiettivo comune di tutti i Paesi e al quale i Paesi hanno la responsabilità di contribuire».


Il rischio, del resto, non è solo il rinnovato protagonismo americano nell’area (atteso dagli analisti cinesi fin dalla conquista talebana di Kabul), e non sono solo i sottomarini australiani. Anche il ruolo della Gran Bretagna dopo la Brexit, passato un po’ in sordina, potrebbe complicare le cose: la nuova postura internazionale di Londra è stata riassunta in un documento pubblicato a marzo del 2021 nel quale si esplicita la nuova «inclinazione britannica per l’Asia», il cosiddetto “Tilt to Asia”. Durante la visita a Jakarta nell’aprile del 2021, il segretario per gli affari esteri del Regno Unito, Dominic Raab, ha annunciato che la British Royal Navy avrebbe inviato un gruppo d’attacco guidato dalla portaerei HMS Queen Elizabeth nella regione dell’Indo-Pacifico. Una mossa che va letta come conferma dell’impegno di Londra nei confronti dei propri partner regionali. La sicurezza marittima è uno dei temi prioritari segnalati da Boris Johnson: le navi inglesi hanno infatti attraversato il Mar Cinese Meridionale, al centro di dispute tra Cina e diversi Paesi dell’area, e hanno condotto esercitazioni militari con il Giappone e gli Stati Uniti che si sono concluse ad agosto.

 

Secondo Foreign Affairs, «l’impostazione di Johnson segna l’ennesimo capitolo nella confusa ricerca britannica di un ruolo post-imperiale, mescolato con un pizzico di arroganza post-Brexit e il desiderio romantico di ristabilire la presenza asiatica che la Gran Bretagna ha demolito alla fine degli anni Sessanta». Valutazione negativa condivisa da molti in Asia. Alcuni critici, inoltre, pensano che con il tempo vi sia un rischio reale di trascinare la Gran Bretagna in un conflitto militare con la Cina. D’altro canto, però, l’appoggio che Londra ha promesso ai Paesi asiatici fuori dall’orbita cinese in nome della sicurezza sui mari potrebbe accelerare l’ingresso del Regno Unito nell’Asean (l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico).


La risposta cinese all’Aukus e alle mire di Londra e Washington, oltre ad essere stata di natura commerciale con la richiesta di aderire alla Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp) successiva alla Trans Pacific Partnership affossata da Trump, è stata in linea con le preoccupazione espressa dai paesi della regione. L’Esercito popolare di liberazione cinese starebbe infatti valutando l’acquisto di 36 elicotteri d’attacco russi Ka-52K. Lo ha dichiarato Zhou Chenming, ricercatore dell’istituto militare di scienza e tecnologia Yuan Wang di Pechino. La commessa militare sarebbe la terza per entità tra quelle effettuate da Pechino, e gli analisti militari ritengono che la manovra rafforzerebbe la collaborazione difensiva tra i due Paesi in funzione anti-statunitense. Pechino destinerebbe gli elicotteri d’attacco pesante Ka-52K alle sue unità navali d’assalto anfibio. Giochi di guerra che rischiano, prima o poi, di creare l’incidente “fatale”.