Le indagini della Guardia di Finanza hanno scoperto oltre duecento milioni di euro inviati da Padova alle banche di Pechino. Ma è solo la punta dell’iceberg. «È come se la gran parte delle aziendine cinesi, nel manifatturiero e nel commercio, avessero ricevuto un vademecum su come evadere le tasse e riportare contante in patria»

La via della seta c’è già, ma gira all’incontrario: porta soldi sporchi, fatti in nero da una miriade di aziendine e partite Iva cinesi, dall’Italia alla Cina. Un fiume di denaro che approda in banche legate anche allo Stato guidato da Xi Jinping.

 

La Guardia di finanza ha avviato una grande operazione sul riciclaggio cinese nel nostro Paese che ha come obiettivo principale riportare nella madre patria l’enorme quantitativo di contante in nero fatto in Italia. Una storia che rischia di avere sviluppi importanti, e implicazioni geopolitiche di non poco conto, e che nasce nelle stradine e nei bar del ricco Veneto e in centri commerciali del nord, con tanto di sacchi pieni di contanti per decine di milioni di euro che entrano ed escono dai negozietti gestiti da cinesi, e prosegue con società cartiere in mezza Europa fino agli istituti bancari di Pechino e Shangai.

 

Al momento la Guardia di finanza ha scoperto un flusso illecito di denaro dall’Italia alla Cina pari a 210 milioni di euro (cinque volte le rimesse ufficiali della comunità cinese verso la madrepatria), ma è solo la punta dell’iceberg: perché questa cifra riguarda appena due operazioni dei finanzieri fatte a Pordenone e Portogruaro, nate entrambe per altri motivi, slegate tra loro, ma che invece erano facce della stessa medaglia. Anzi, erano mosse di uno stesso gioco. In queste settimane, indagini sono state avviate anche a Milano, Alessandria, Vercelli e in diverse città del nord. Lo schema scoperto sarebbe identico e dalla Guardia di finanza ammettono: «È come se la gran parte delle aziendine cinesi, nel settore manifatturiero e del commercio al dettaglio, avessero ricevuto un vademecum su come fare nero, evadendo le tasse, e su come riportare questa enorme mole di denaro in contante in Cina», dice il colonnello Stefano Commentucci.

 


I SACCHI DI SOLDI
Questa storia inizia in corso Stati Uniti a Padova, accanto al grande centro commerciale all’ingrosso cinese. Le fiamme gialle stavano seguendo i movimenti di Stefano Cossarini, un imprenditore di Pordenone sospettato di aver messo su una rete per smaltire illecitamente scarti da metallo prodotti dalle fabbrichette di Lombardia e Triveneto, evadendo milioni di euro di Iva e altri imposte. Scrivono i finanzieri nel loro report investigativo che ha fatto scattare l’indagine della direzione distrettuale antimafia di Trieste: «Stefano Cossarini si reca spesso in corso Stati Uniti a Padova, entra nel negozio ad insegna Pier Monì e ne esce con buste dalle quali si evince il recupero, all’interno del negozio, di qualcosa». La Guardia di finanza da giorni aveva piazzato lì delle telecamere: in quei sacchi c’è del denaro contante.

 

«È la chiusura del cerchio, perché avevamo trovato la filiera dei pagamenti verso la Cina da parte degli italiani, ma non riuscivano a capire come facevano poi i soldi a tornare nella disponibilità degli imprenditori su cui stavamo indagando. Da qui abbiamo capito il meccanismo, complesso, che di fatto consentiva agli italiani di evadere le tasse e portare il frutto dell’evasione in banche cinesi, e ai cinesi di far diventare di loro proprietà queste somme nelle banche del loro Paese in cambio di denaro contante agli italiani per una cifra davvero elevata, probabilmente frutto del nero creato in Italia dalle aziende cinesi o da altre attività illecite», continua Commentucci. Lo schema è complesso: centinaia di aziende della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia Romagna, per smaltire gli scarti metallici da produzione senza pagare le imposte e senza garantire il controllo dell’origine dei materiali, hanno venduto in nero 150 mila tonnellate di rame, ottone, alluminio e altri metalli a delle società (Metal Nordest, Femet ed Ecomet) create da tre imprenditori, Stefano Cossarini, Roger Donati e Fabrizio Palombi. Quest’ultimi facevano finta poi di acquistare lo stesso quantitativo di materiale da tre società in Repubblica Ceca e in Slovenia, intestate o controllate da loro: la Kovi Trade, la Steel distribution e la Biotekna. In questo modo, con delle carte fasulle si certificava l’origine di questo materiale dall’estero.

 

Ma in realtà i metalli erano stati comprati in nero in Italia e venivano poi venduti con certificazioni apparentemente regolari alle grandi acciaierie del Nord, probabilmente ignare dal momento che la provenienza dall’estero era certificata da documenti che sembravano in ordine. Ma l’operazione non finisce qui: formalmente le tre società della Slovenia e della Repubblica Ceca ricevevano i bonifici della Metal Nordest, della Femet e della Ecomet e quindi incassavano soldi veri, circa 150 milioni di euro. A questo punto le tre società estere facevano finta di acquistare a loro volta il materiale ferroso in Cina, facendo quindi ulteriori pagamenti veri accreditati in diversi conti di banche cinesi. Una volta accertatisi del bonifico fatto in Cina, i cinesi restituivano i soldi in contanti agli italiani. Il sospetto che lo Stato cinese sappia di questo giro di soldi nasce dal nome delle banche che ricevevano questi bonifici. In gran parte istituti controllati dallo Stato: a partire dalla Bank of China, con conti nelle sedi di Xiamen, Quanzhou, Hangzhou e Jinhua, proseguendo con The agricultural bank of China, China city bank, China construction bank corporation, China everbright bank e Industrial and commercial bank of China. Fin qui comunque potrebbe sembrare un’operazione complessa che, tutto sommato, nonostante le cifre in ballo, più di 150 milioni di euro in contanti, riguarda solo i due gruppi di italiani e cinesi in questione. Ma non è così.



LE FOTO NELL’HARD DISK
Qualche mese prima la Guardia di finanza di Venezia guidata dal generale Giovanni Avitabile, in un’operazione coordinata dal colonnello Michele De Luca del gruppo di Portogruaro, investigando su un giro di riciclaggio, scopre per pura casualità un meccanismo identico. Le Fiamme gialle stavano facendo un approfondimento su Fabio Gaiatto, un finto broker che in secondo grado è stato condannato a 10 anni per aver truffato una serie di clienti attraverso una sua società finanziaria che prometteva guadagni fino al 10 per cento della somma investita. Quando gli inquirenti si concentrano su un investitore di Gaiato, un sessantaquattrenne di Portogruaro, salta fuori dell’altro. Durante la perquisizione in casa, l’investitore cerca di disfarsi di un hard disk gettandolo dalla finestra: «I nostri tecnici riescono comunque a recuperare tutti i file e trovano non solo i pagamenti a società cartiere in Bulgaria e Slovenia, sempre per finti smaltimenti di rottami di ferro e finti acquisti dalla Cina dello stesso materiale con bonifici che finivano questa volta in una banca di Shangai, ma anche le foto di questi bonifici inviate ad imprenditori cinesi». Seguendo queste tracce, gli inquirenti finiscono sempre in corso Stati Uniti a Padova. E davanti si trovano il volto di chi gestirebbe questa intermediazione per conto dei cinesi. Lo stesso volto che appare nell’operazione della Finanza di Pordenone.


«L’indagine ha mostrato che alcuni soggetti di nazionalità cinese oltre ad offrire questo servizio a imprenditori italiani che volevano evadere imposte e tasse per avere più risorse dai loro investimenti, riuscivano a far arrivare in Cina un enorme quantitativo di denaro contante, probabilmente anche frutto di nero e attività illecite, bypassando completamente il sistema degli intermediari bancari e, con esso, i presidi antiriciclaggio», dice il generale Avitabile. Le somme movimentate verso la Cina in questa operazione sono pari a 60 milioni di euro.

 

LA VIA DELLA SETA IN NERO
Incrociando le due operazioni, non solo si scoprono meccanismi fotocopia ma si arriva a un riciclaggio pari a 210 milioni di euro e si trovano gli stessi personaggi cinesi adesso nel mirino degli inquirenti. Solo nel mirino, e non già fermati, perché per far scattare gli arresti in base alle nuove norme sul riciclaggio occorre dimostrare la provenienza illecita di queste somme e qui è molto più difficile: alcuni cinesi sono stati fermati alla frontiera con milioni di euro in contanti, ma al netto del sequestro delle somme trovate e non giustificate non si è potuto fare molto altro perché di fronte a una dichiarazione del tipo «ho trovato queste somme per strada» è quasi impossibile avviare una indagine a ritroso per capire da dove provengano in soldi.

 

In generale, il sospetto è che vista l’enorme disponibilità di denaro contante offerta dai cinesi nelle due operazioni di Pordenone e Portogruaro, e viste le indagini in corso a Milano, Alessandria e Torino, queste banconote siano frutto del nero fatto da aziende e commercianti della comunità cinese, oltre che di traffici illeciti come la prostituzione. Anche su questo fronte i numeri dicono tanto: tra il 2008 e il 2020, solo nel Veneto sono state aperte da cinesi 15 mila partite Iva e il 58 per cento ha dichiarato zero euro, il 21 per cento tra 5 mila e 600 euro di fatturato. Inoltre sono tantissime le partite Iva che dopo due anni sono state chiuse. In generale, in Italia gli interventi ispettivi nei confronti di ditte individuali cinesi negli ultimi anni sono state quasi 20 mila e hanno consentito agli inquirenti di scoprire una maggiore base imponibile ai fini delle imposte dirette pari 7,3 miliardi di euro e un’Iva dovuta di oltre un miliardo. «Spesso i commercianti o le aziendine fanno anche scontrini e fatture, poi però non presentano la dichiarazione dei redditi e quindi creano debiti enormi con l’erario», dicono dalla Guardia di finanza, che ha appena avviato un osservatorio sull’economica cinese creato al comando generale proprio dopo le ultime operazioni che hanno scoperto la grande via del nero. In questa storia si fa largo un altro sospetto delle Fiamme gialle che sta trovando conferma da alcuni risconti nelle altre operazioni in corso: in sostanza i cinesi, per portare i soldi in Cina, hanno bisogno di chi, in Italia, vuole evadere tasse oppure si trova denaro contante da investire e riciclare. E le mafie rientrano perfettamente in questa categoria: la ’ndrangheta con il traffico e lo spaccio di cocaina ha moltissimo contante da movimentare e alcuni suoi esponenti sono entrati in contatto con il sistema offerto dall’organizzazione cinese. Una cosa è certa: il filone scoperto dalla Guardia di finanza potrebbe rivelare molte altre sorprese e i numeri di un riciclaggio da far paura.