La Dad e quelle cicatrici sulla pelle dei nostri ragazzi
In questi incredibili e patologici nove mesi la scuola è rimasta nel silenzio. E i cuori si sono infranti. Al punto che l'emergenza rischia di farsi norma
Scene dalla figlia unica, da marzo a oggi. Una ragazzina prova i solfeggi con il flauto, a favore dello schermo di un computer male in arnese, dal cui video si sporge un’insegnante, il volto distorto, i complimenti che arrivano come da un Max Headroom riadattato (se qualcuno non si ricorda di Max Headroom: era un’animazione degli anni Ottanta, un presentatore televisivo virtuale e grottesco, come la scuola oggi: virtuale e grottesca). La stessa ragazzina in tuta stantuffa il respiro, corre sul posto, mentre l’insegnante di “motoria” ritma l’ordine dei saltelli dallo schermo del pc. La medesima ragazzina in una ricerca da effettuarsi coi compagni di classe: ore e ore su Zoom, parlano dello zoombombing, lo scherzo con cui gli hacker della piattaforma entrano in stanze private e molestano adulti e bambini. Ecco un pomeriggio di Dad, la didattica a distanza, il surrogato con cui le famiglie hanno visto ulteriormente sfigurata un’esistenza che il virus aveva già sfregiato. La continua connessione ai registri di classe elettronici, il caos dei compiti on line, delle verifiche, delle bigiate dei ragazzi che non si connettono e fingono di stare davanti al video. Le quarantene comminate alle famiglie, perché un caso Covid in classe c’è stato o lo si sospetta. Gli spostamenti per evitare i mezzi pubblici. Tutta un’attività da aruspici, che nei bollettini leggono l’andamento dei giorni a venire. Una nazione che ulula l’urlo di Munch.
Che vada a infartuare la scuola è un fatto senza precedenti. La scuola, come l’amore, è simile a un albero: purché sia seminato, spunta e penetra in profondità con le sue radici in tutto il nostro essere e continua a verdeggiare anche sopra un cuore in rovina. Ed è la rovina dei cuori che va osservata in questi incredibili e patologici nove mesi, l’età del silenzio della scuola, dei portoni chiusi, degli insegnanti ridotti a totem parlanti in Ffp2 o via etere: l’infarto della programmazione e il black out delle relazioni. La sindrome Hikikomori, quella psicosi con cui i ragazzi si confinano a videogiocare in stanze inaccessibili senza più uscire, da emergenza rischia di farsi norma. I disturbi generalizzati dell’apprendimento deflagrano nella popolazione giovane.
I giovani, che l’attuale età adulta riguarda come spiriti inermi, rischiano il danno collaterale. Incombe un antico allarme, che un poeta sintetizzava così: «l’Italia che ha insegnato a leggere al genere umano, l’Italia oggi non sa leggere!». E non sa deliziarsi negli orrori della preadolescenza e prepararsi a fare da cavia al mondo, prima di rivoluzionarlo, il che è un altrettanto antico compito dell’adolescenza. La libertà di insegnamento e la fame di altri viventi messe a repentaglio dalle molecole virali: un’ulteriore sconfitta di quell’ideologia progressiva, con cui abbiamo cercato di trattare noi stessi e il mondo. La constatazione del dolore è inutile, o semplicemente consolatoria, se quel dolore non costituisce il motore con cui lo stato e le persone elaborano un piacere maggiore, un vantaggio sull’aridità del reale. Il progesso diventa una chimera, a cui nessuno bada più, perché i tempi sono fin troppo saturi di progresso, cioè di aggiornamento tecnico. Ed è ciò che sta capitando, in un crescendo wagneriano e contraddittorio, per cui si inneggia alla resilienza (questa parola di successo, diventata gommosa) e al contempo alla rovina di una generazione perduta. Bisognerà chiedersi: perduta a cosa? Resiliente a cosa?
La scuola, che è un universo dentro il mondo, lamenta lo stop ed è giusto che lo faccia. Non si è tuttavia intercettato nessuno che abbia applicato alla scuola la retorica per cui, dopo il virus, nulla sarà come prima e tutto dovrà essere mutato. L’ignoranza nazionale è anzitutto esercitata, più che a scuola, sulla scuola. Il Paese ha colpevolmente ignorato le evidenti storture di un sistema educativo che fu d’eccellenza e che dalla riforma Berlinguer (Luigi) è stato distrutto, attraverso altre riforme nominali (Moratti, Gelmini, Renzi). E continua, questa ignoranza nazionale, a perpetrarsi nell’uso eccessivo di vittimismo in questi mesi pericolosi. La realtà non sembra sottoporre una pedagogia al consorzio umano, figurarsi se la sottopone alla pedagogia stessa. Eppure qualcosa non tornava e non torna, in una scuola che, a partire dalle elementari, e adesso anche dalle materne, diagnosticizza i bambini e li inserisce nella condanna a vita dei Dsa (disturbi specifici dell’apprendimento) e dei Bes (bisogni educativi speciali) e delle cosiddette leggi 104 (il riconoscimento di handicap), tutti percorsi obbligati a colpi di acronimi (sopra tutti il Pdp, il piano didattico personalizzato).
Una confusività in cui l’insegnamento diviene non lo strumento di una liberazione personale, bensì il grande afflittore. La scuola non produceva benessere prima, sottoponendo la generalità degli allievi a un delirio di performance cattivo e inefficiente, attraverso l’impiego di mezzi ottocenteschi inadeguati alla realtà del 2021. La pandemia esalta queste incrinature sociali, le allarga a faglie, accelera i processi di senescenza, portandoli a morte. La risposta da fornire, in termini di collettività, è proprio la presa di coscienza che oggi, col Covid, tocchiamo con mano le storture di un sistema educativo che era già putrescente tra i suoi Invalsi e le sue Lim (test di valutazione per insegnanti e lavagna elettronica). Si finisce per sfinirsi, a essere genitori di chi frequenta oggi la scuola in ogni ordine e grado. E ciò stando al discorso didattico. Non parliamo di quello relazionale, estenuato da deliri di performance che rasentano il dadaismo. Le ricerche sul metodo analogico di un maestro di buona volontà e di certo genio, Camillo Bortolato, il cui nome e i cui libri sono ricercatissimi e frequentatissimi, definisce il fallimento di uno dei pilastri nazionali: su scuola e sanità si gioca il futuro di un Paese, in entrambi è evidente che l’Italia è messa malissimo. Quali pensamenti sono stati fatti in merito, in questi mesi di costrizione alla distanza? Quali cifre sono state previste per la rivoluzione del sistema scolastico, nel piano italiano di Recovery?
La legge del mondo materiale è l’equilibrio, la legge del mondo morale è l’equità: stiamo mancando questo principio. Non è affatto vero che stavamo garantendo a tutti le stesse chance. Deve esserci una scuola prima e dopo la pandemia. È richiesto un pensiero sistemico. L’equità sociale non è una ricetta, ma l’esigenza politica e morale di tutti noi. Se manca questo passo, siamo morti noi e i nostri figli, a cui tanto teniamo. Non si ricorda, negli ultimi decenni, un movimento di massa che queste cose le abbia pretese. Non gli adulti e non i giovani hanno su questo punto preteso il cambiamento. Il buco nero della scuola risiede anzitutto qui.
C’è un fattore decisivo, a questo proposito. Secondo l’ordine costituito il trauma è la forma del male. Ovunque e sempre, si è detto, ragazze e ragazzi hanno a che fare con traumi. È a partire dalla cautela e dall’impossibilità di resipiscenza intorno al trauma, che la società italiana contemporanea ha tratto una sua religione laica, pervasiva e indiscutibile: tutto è trauma. Il Covid mostra che non c’è trauma, quando il danno è esteso nello spazio e nel tempo. La scuola non subisce un arresto per trauma. Invece matura il danno, enorme, per un’interruzione lunga, per un esaurimento di forze. Le cicatrici dovranno suturare le ferite, ma le cicatrici non sono solo questione di medico: sono questione di pelle, della reattività di chi è stato ferito. Questa enorme materia, che ragazze e ragazzi affrontano in questi mesi, è ciò che sembra sempre meno interessante insegnare o apprendere: è la storia. La stiamo, la stanno vivendo.
La ragazzina spegne il computer. È pallida, le giornate nella stanza davanti al video le conferiscono l’incarnato dei tisici, qualcosa di ottocentesco. La guardiamo in silenzio, è una meditazione vivente. È cresciuta in silenzio come l’erba, come la luce avanti il mezzodì, la figlia che non piange.