Il valore della rivolta, la lotta contro il colonialismo capitalistico, il rifiuto del riformismo, la morte violenta. Ritratto di una filosofa che continua a mettere alla prova ogni sinistra: anche quella che finge di ignorarla

Schermata-2021-01-07-alle-18-00-09-png
A lungo, nei mesi della primavera, circolò nei quartieri operai di Berlino la leggenda che lei fosse ancora viva. Solo alla fine di maggio il suo corpo riemerse dal Landwehr, il canale dove era stata gettata quando ancora respirava. Rosa Luxemburg non aveva voluto cercare riparo altrove, mentre la rivolta spartachista veniva repressa nel sangue. Sotto il tiro delle mitragliatrici, insieme a Karl Liebknecht e Paul Levi, aveva lasciato il 9 gennaio la sede di “Bandiera rossa”, l’organo della Lega di Spartaco.

Quel nome “Spartaco” le era piaciuto, perché richiamava il passato mitico della rivolta degli schiavi. Sui temi e i modi dell’insurrezione aveva avuto più di un dubbio – nessun dubbio, invece, sul valore politico della rivolta. Fu accanto ai lavoratori che insorsero contro gli orridi proprietari del denaro, gli efferati signori della guerra che avevano prodotto la barbarie del conflitto mondiale. Tutto accadde nei primi quindici giorni del 1919. Quando i feroci “Corpi franchi”, assoldati dal governo socialdemocratico di Ebert, irruppero nella città, fu inevitabile quell’atroce sconfitta assurta a simbolo nella storia della sinistra. “L’ordine regna a Berlino” è il titolo dell’ultimo articolo di Luxemburg - ma è molto di più.

Poco si sa davvero del suo assassinio. Sfinita da notti insonni, prostrata da un cupo senso di angoscia, Rosa non aveva perso la speranza. Immaginava che, per l’ennesima volta, l’avrebbero trasferita in prigione. Aveva con sé la sua valigia con il necessario. Ma già all’ingresso dell’Hotel Eden la soldataglia riversò contro di lei oscenità e insulti. Fu poi un susseguirsi di violenze.

Runge la colpì con il calcio del fucile, Vogel le sparò infine un colpo di rivoltella. È rimasta una foto che li immortala la sera dell’uccisione, mentre festeggiano con la truppa. Entrambi restarono più o meno impuniti. Il vero responsabile, il capitano Waldemar Papst, divenuto poi membro del partito nazista, poteva parlare ancora da vincitore nella Germania degli anni Sessanta sostenendo che quell’uccisione era «giustificabile anche per motivi morali e teologici».

La morte di Rosa Luxemburg diventò presto simbolo di molti eventi. Segnò anzitutto uno spartiacque tra due epoche della storia tedesca. Dopo quel delitto efferato gli assassini dell’estrema destra si sentirono liberi di liquidare gli esponenti della sinistra radicale, da Gustav Landauer a Eugen Levine, intellettuali ebrei e politici lungimiranti. E in seguito estesero lo spettro dei loro crimini. Ma quella morte rappresentò anche la rottura definitiva e irrimediabile, nella sinistra europea, tra socialdemocratici e comunisti. Tanto più che proprio Luxemburg era stata la critica più severa del riformismo socialdemocratico.

Le riforme possono mitigare gli effetti più dannosi del capitalismo, senza scalfirne il sistema che, grazie alla sua adattabilità, supera le crisi che produce. Non si tratta di due vie per giungere alla stessa meta, dato che la socialdemocrazia, limitandosi a una “bonifica”, ha ridotto lo strumento della riforma a fine in sé, iscrivendosi così nell’orizzonte ultimo del capitale.

Ma Rosa Luxemburg puntò l’indice contro la socialdemocrazia anche per la tendenza al nazionalismo che, oggi come allora, non è venuta meno. Che cos’è la nazione, se non una finzione, il «costrutto di borghesia e piccolo-borghesia»? Il motto “socialismo o barbarie”, ripreso nel ’68, ne sintetizza il lascito: o i popoli europei impareranno a dialogare oltre i confini, operando insieme per una giustizia sociale, oppure scivoleranno rapidamente nella barbarie bellica. Perciò si era schierata - tra i pochi - contro la prima guerra, quella carneficina dei poveri, quella distruzione della cultura. Ma aveva soprattutto intuito il pericolo di un “nazional-socialismo”. Rosa Luxemburg - lo sappiamo - è il nome proprio di una “Nuova Internazionale” ancora da costruire.

Ha forse perciò tradito il suo ebraismo? Di solito vengono estrapolate le parole rivolte in carcere a un’amica che le raccontava di un pogrom: «Che cosa intendi con le peculiari sofferenze ebraiche? Mi sento altrettanto vicina alle povere vittime delle piantagioni di gomma di Putumayo, o ai negri dell’Africa con i cui corpi gli europei giocano la loro partita di caccia».

D’altronde non fu la prima a denunciare il colonialismo capitalistico che conquista terre e divora vite? È tuttavia sbagliato credere che proprio lei - la “giudea galiziana”, come veniva apostrofata - lei, che ne aveva sofferto in prima persona, non fosse sensibile all’antisemitismo. Ma la compassione non ha confini.

Forse nessuno più di Hannah Arendt ha saputo indicare la novità di Rosa Luxemburg. Due donne, due ebree, due intellettuali, capaci di elaborare la visione di una politica altra, aperta a spazi comuni di libertà. In molti sensi Arendt si proclama erede della democrazia libertaria inaugurata da Luxemburg. “Sciopero generale a Berlino …”. In quel gennaio seguivano con spasmodica attesa le notizie dell’insurrezione spartachista. La madre Martha Arendt le disse: «Fa bene attenzione, perché questo è un momento storico».

Rosa Luxemburg apparteneva a un gruppo di ebrei-paria che, “estranei a ogni gerarchia sociale”, guidati da “principi morali” e memori della solidarietà appresa nelle pagine bibliche, rivendicavano quell’assenza di radici cui si accompagna un tanto più profondo senso di umanità. Non erano ebrei assimilati - scrive Arendt - erano ebrei europei.

Non che Luxemburg prescindesse dalle differenze. Anche come donna. Piuttosto era una outsider. Ma l’impronta femminile affiora dove s’interroga sulla nascita dell’agire, sull’imprevedibile emergere dei movimenti di rivolta, sugli eventi spontanei che, fuori da ogni controllo e pianificazione, dischiudono un nuovo spazio politico. «Nessun partito può artificialmente manipolarli», scrive nella Juniusbroschüre. Non c’è avanguardia che tenga. Quel che Lenin ha tacciato di spontaneismo è, oggi più che mai, il modo di guardare al “nuovo” in politica, all’esperienza umana di agire di concerto per cambiare il mondo.

Arendt ne ha seguito la traccia sia quando ha visto nella rivoluzione l’evento politico che costituisce il segreto dell’inizio in politica, sia quando ha indicato nel sistema dei consigli, che ricompaiono nella storia - dalla Comune alla rivoluzione ungherese del ’56 - la vera scuola di vita pubblica in cui si mette in pratica e si rigenera la democrazia.

L’idea di una repubblica consiliare è ciò che ha separato Luxemburg da ogni proposito di dittatura. Perché la libertà è irrinunciabile ed è sempre «la libertà di chi pensa diversamente». Ma attenzione: la sua idea di democrazia non è per nulla quella liberale. Non stupisce perciò che in questi anni si riprenda la sua concezione all’interno del dibattito sulla democrazia radicale o sulla democrazia anarchica.

Luxemburg stessa è davvero il simbolo del nuovo. Ogni nuova sinistra è ripartita dai suoi scritti, ogni vecchia sinistra ne ha dimenticato perfino il nome.