Si dice che la dimensione dei ragazzi in casa, oggi, sia costituita dai monitor. Ma non sempre è così

Si dice che la dimensione privilegiata dei ragazzi che vivono e studiano in casa sia lo schermo. In realtà ogni situazione è diversa; a diventare misura del mio mondo, ad esempio, è stata la voce, più che la luce di un monitor. La mia stessa voce, che ho cominciato ad ascoltare per capirne i limiti e le possibilità espressive; la voce delle persone che abitano nel palazzo; la voce della radio e dei podcast, più presenti della tivù e delle serie in streaming.
C’è modo e modo di elogiare il silenzio. Non sempre il silenzio è fecondo.

A volte il silenzio è presagio di una stanchezza che allunga la propria ombra sterile, avvelenando l’aria e causando una lenta, corrosiva implosione delle energie vitali. Sono i momenti nei quali le parole sono finite. Un lutto che non riesci a decifrare offusca le abitudini. Qualcosa è cambiato e tu non lo hai saputo comprendere. Qualcosa è cambiato e ti trovi sdraiato inerme su un letto, o accasciato su una sedia, o seduto sul pavimento con le gambe schiacciate contro il petto. Il silenzio infecondo del lutto che grava senza rivelare il proprio volto ti porta a cercare una voce.

È così che la radio mi ha salvato la vita. Per ragioni di ipersensorialità e sinestesia, non sono in grado di udire una voce al telefono o alla radio e connetterla automaticamente all’immagine di un corpo umano. La voce per me è pura tensione emotiva, disincarnata, che si fonde con gli oggetti, le persone, gli animali, il paesaggio che vedo di fronte a me. Essa atterra nella materia presente e la pervade con le proprie frequenze. Se disegno un volto mentre ascolto la radio, la voce trasmessa lo irrora gentilmente come un ruscello che si infiltri nei canali di un piccolo orto. Così sottraggo a se stesso il silenzio infecondo; vi semino e vi coltivo l’emozione, il tratto del disegno e la voce intercettata dalle antenne della radio diventano una cosa sola.

Un giorno mi affacciai alla finestra mentre ascoltavo la radio. Era una sera di tarda primavera. Il tramonto effondeva bagliori rosa e arancio nelle volute severe dei cumulonembi. Un temporale marino, di quelli che durano pochi minuti e, pur approssimandosi, non oltrepassano la linea del porto e riversano giganteschi fulmini azzurri senza che il vento di tramontana ne porti il fragore.

Nessun tuono, quindi; udivo solo la radio, le voci che danzano fra uno scherzo, una critica che diventa subito pensiero laterale, uno sterzare instancabile che non perde mai la rotta, un gioco felice e disinteressato dell’intelletto. Guardare il temporale al ritmo di quel gioco, ballare con i fulmini che non tuonano, respirare il tramonto senza malinconia. Il lutto raggrumato nel petto comincia a sciogliersi. Il silenzio è di nuovo meraviglia: neanche i fulmini lo disturbano. Il mare è calmo. Vento di tramontana.

unafinestrasulporto
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