I giorni di quarantena riportano a galla i momenti più importanti. Come quella volta che un sogno di bambina ha colpito al cuore la disperazione. E al risveglio la vita ha ricominciato a scorrere

I giorni del deserto sono i più pericolosi. Una sera sentii che il deserto era arrivato. Era dentro di me. Mi rideva in faccia con un sogghigno tremulo e delirante. Sorrideva e strillava, senza che nulla di tutto questo avesse un significato: tutto è niente, ognuno è nessuno, non esistono perché, soltanto come. Il deserto si espandeva a discapito di tutto. I significati cadevano e marcivano nell’abisso del suo ventre vuoto. Esso si imponeva come unica realtà, ostruendo ogni cosa che non fosse se stesso, crescendo senza limiti: possedere tutto o distruggere tutto, senza che i due scenari si contraddicessero necessariamente.

Dovevo fermarlo. Mi stava uccidendo a partire dal mio cuore. Avevo la febbre e la notte ero preda di incubi che preannunciavano l’inferno del nulla. Dovevo fermarlo per salvarmi, prima che ogni cosa precipitasse nell’eterno ritorno di giorni, mesi, anni uguali al precedente e al successivo, sulle ceneri guaste di un’anima estinta. Potevo decidere di sconfiggerlo? Era una creatura della mia fantasia, in fondo. Nella fantasia, succede quello che voglio. Se lo voglio sconfiggere, lo sconfiggo. Ma ogni volta che decido di sconfiggerlo, è più forte di prima. La mia voluttà è il suo nutrimento preferito. La stessa voluttà senza radici con cui il deserto divora significati senza alcun criterio che non sia la propria espansione.

Non so più cosa fare. Un giorno, alcuni personaggi emergono dalla mia immaginazione. Sono giudici. “Deserto, noi siamo qui per condannarti a morte. Hai commesso crimini terribili. La pena capitale è la sola con la quale ti possiamo fermare una volta per tutte”. Ma posso davvero condannare a morte il deserto? Non sono un boia. Sono una bambina di 12 anni. Non so perché questa vertigine mi stia divorando, è esplosa misteriosamente fra i miei sogni d’infanzia. Mi è stato insegnato che la pena di morte è un’ingiustizia e non accetterò mai di condannare a morte qualcuno. “Ma d’altronde la pena di morte è una crudeltà come quelle che hai commesso tu, perciò ti poniamo di fronte ad un bivio, e ci rimettiamo alla tua scelta: scegli la vita o la morte?”

Il deserto viveva facendo morire tutto il resto. Ma... e la morte? Se il deserto ambiva a possedere in sé tutte le qualità per annientarle, allora doveva possedere anche la morte, non solo la vita. Il deserto scelse la morte, perché così avrebbe posseduto l’unica qualità che non riusciva a trovare altrove per inghiottirla in sé. Morì davanti ai miei occhi. Ma neanche il tempo di capacitarmi di quello che stavo facendo che, nell’istante in cui spirava, negli occhi allucinanti del deserto pulsava un lieve bagliore, e le dita della sua mano destra ebbero un quasi impercettibile sussulto; ed era morto. Pareva che avesse cercato qualcosa nello spazio davanti a sé; e non solo sembrava che avesse capito di essere caduto nel paradosso che lo portava a morire, e con questo la natura stessa della qualità che aveva preteso; sembrava quasi che chiedesse di essere tenuto per mano per paura di affrontare quella stessa morte. A chi lo aveva chiesto? Al vuoto? Ai giudici? A me?

Come può il vuoto chiedere al vuoto di tenergli la mano mentre muore? Chi c’era dietro quel vuoto? C’ero io? Quel vuoto... quel vuoto era una mia creatura? Era una mia creatura ed io l’avevo uccisa? E proprio mentre la uccidevo quella mi aveva volto uno sguardo stupito e mi aveva chiesto di tenerla per mano? Interruppi improvvisamente la scena, mi svegliai, vidi le luci arancioni del porto a novembre, il faro rosso nella sera. L’avevo presa per mano?

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