Restare nella propria stanza come accettazione dei propri limiti. Ma anche come atto di libertà e di responsabilità verso le persone che amiamo

Spesso mi è stato chiesto se la mia decisione di vivere nella mia stanza non corrispondesse ad una paura di ciò che c’è al di fuori. Paura della città. Paura dell’altro. All’inizio è stato sicuramente così. Con il tempo, però, vivendo in uno spazio silenzioso, imparando a disciplinare l’attenzione, mi sono abituata a seguire e a rispettare il lavoro del pensiero. E ho cominciato a capire che non si esaurisce tutto nella paura.

A volte mi sembra di abitare ai confini della terra. A volte realizzo invece di essere come la guardiana di un faro.

Quando decisi di vivere e studiare nella mia stanza lo feci per assumermi la responsabilità della mia salute e dei miei limiti, di fronte ad una situazione che rischiava di fagocitarmi. I miei movimenti al di fuori di casa mia e la socializzazione ne risentirono notevolmente. Ma non ero prigioniera, perché assumersi la responsabilità dei propri limiti e compiere una scelta di cui rispondere è prerogativa di una persona libera.

Un guardiano di un faro non è prigioniero della propria torre. È una persona che ha scelto consapevolmente di porre dei limiti ai propri spostamenti per curare la salute di chi naviga, impedire incidenti, segnalare attraverso la luce: siete al sicuro, siete arrivati al porto, ci prenderemo cura di voi. Scegliendo di prendermi cura innanzitutto della mia salute, quel giorno, non mi rinchiusi in me stessa. Stavo navigando in acque pericolose e avevo bisogno di un porto sicuro nel quale approdare, e di un faro che mi dicesse: qui c’è un approdo, qui sarai in salvo. Ma a fornire quell’approdo potevo essere solo io. Non potevo aspettare che qualcuno là fuori mi mostrasse la luce. Dovevo accenderla dentro di me, diventare porto per me stessa. Navigante e guardiana del faro, insieme. Questo è impossibile se non si prende atto dei propri limiti e se non ci si assume la responsabilità della cura di noi stessi. Ma non è un sacrificio in termini di libertà: è un atto definitivo di libertà.

A livello macroscopico, l’epidemia ci pone in una situazione simile. Vedo molte persone in difficoltà perché si sentono soffocate dalle misure di contenimento. Io non sento alcun soffocamento. Sento anzi qualcosa che mi rincuora: la stessa decisione di navigare ed essere insieme guardiani della nostra salvezza, presa da migliaia di persone che sanno che l’amore e la cura esistono prima della paura, e c’è un abisso fra chi protegge per amore e chi costringe per paura. È questa consapevolezza a fare la differenza con una volontà di censura ed oppressione. Una consapevolezza che si sta diffondendo nelle persone, nelle abitazioni, nell’intimo dell’ambiente domestico.

Non siamo prigionieri. Abbiamo paura della prigione, a volte ci sentiremo ammalati di paura, le mura delle limitazioni ci sembreranno invalicabili e ci causeranno dolore, ma sarà un fantasma che non avrà la meglio su di noi finché saremo consapevoli che scegliere di limitarsi per aver cura di chi amiamo è un atto di libertà.