Vivo nella mia camera, studio qui, non vado a scuola. E ho imparato a percepire la responsabilità di ogni pensiero, movimento, gesto

Apro la finestra e vedo il mare. Immenso, bagna l’intero arco ligure fino alla Spezia, finché l’orizzonte si fa indefinito e restituisce all’acqua e alle nuvole una bellezza remota, più antica della vita. La vertigine dura un istante, poi gli occhi tornano alle navi ormeggiate a poche centinaia di metri in linea d’aria. È così che misuro la mia giornata. Il colore del mare, il chiarore del cielo, l’intensità del vento, il traffico marittimo che per me è più evidente di quello stradale con cui milioni di persone si misurano ogni giorno.

Vivo nella mia stanza da sei anni, quando decisi di non frequentare più la scuola e studiare da sola. Fra l’abbraccio dei libri e i mutamenti dell’atmosfera, ho assecondato la mia necessità di apprendere la solitudine e trasformarla in presenza, di imparare a costruire innanzitutto dentro di me. Esco di casa per le faccende indispensabili, ma dopo che hai vissuto per tanti anni nella quiete e nella lentezza uscire può diventare straniante. Vivere in una stanza ti insegna a praticare l’attenzione. Ti accorgi dei dettagli della città; i colori, gli odori, le voci, i volti si imprimono nella mente con imparziale e inesorabile determinazione, assottigliando il confine fra realtà e visione.

La malattia ti segue a breve distanza. La vertigine dura un istante, ma sopraggiunge sempre più spesso. Hai paura che tutto diventi vertigine, di perdere la lucidità. Misuri ogni passo con prudenza, ogni movimento è una scelta fra serenità e depressione. Io scelgo la serenità, ma devo lavorare per darle solide fondamenta.

Una mattina apro la finestra e cielo e mare mi sorprendono con un silenzio mai udito. Le navi sembrano modellini troppo grandi e colorati, nella luce che ha vinto sul suono. Non giunge più eco dalle strade. Solo l’abbaiare dei cani. Se non fosse per la presenza che ho coltivato in me negli anni, curandola ogni giorno, questo sarebbe il momento della pazzia. Mi sembra di sentire qualcosa in lontananza; è come un blues frenetico e confuso, un’agitazione che non grida ma si condensa in accordi allarmati. Ora tutti devono restare in casa. Lo ha deciso il Governo con un decreto; non riesco a realizzare alcuna differenza fra il prima e il dopo fino a quando mia mamma mi proibisce di uscire. Lo sa che non esco quasi mai; ma me lo proibisce lo stesso. Poi una notte il silenzio è interrotto dal ronzio di un motore. Un’ambulanza. Sono venuti a prendere qualcuno nella nostra via. La malattia è qui. Forse.

La COVID-19 ha colpito quella persona? Ancora non lo so. La stanno caricando su una barella; tutti i volontari indossano la mascherina. Sguardi spaventati guizzano dietro tende scostate per pochi secondi, dietro decine di finestre, finestre come la mia, da cui continuo a guardare il mare, da cui ora tutti guardano il mare. Un mare vuoto, più antico della vita. Sento una vertigine.

Anche oggi scelgo fra serenità e depressione. È una questione di responsabilità. Da anni la vita nella mia stanza mi insegna a non poter fare a meno di percepire la responsabilità di ogni pensiero, di ogni movimento, di ogni gesto quotidiano. Solo così si rimane lucidi di fronte alla malattia.