Sono tante le realtà attive che sostengono i disabili, integrano gli immigrati, lavorano nelle periferie. Ma con la stessa missione: superare l'assistenzialismo

Il volontariato «deve essere uno stimolo per costruire. Non un santo a cui affidare tutto». Patrizia corre fra attrezzi di cantiere e pareti ancora da stuccare. A giugno queste stanze saranno un bed&breakfast: a Padova ne aprono in continuazione, per ospitare turisti attratti da Giotto o pellegrini di Sant’Antonio. Questo però sarà unico: verrà gestito da giovani down. La corsa di Patrizia è un biglietto da visita ideale del modello di solidarietà che ha trasformato la città veneta nella Capitale europea del volontariato per il 2020. Dal 7 febbraio comincia l’anno dedicato a «Ricucire insieme l’Italia», ma il laboratorio civico che lo ha reso possibile è iniziato da tempo. Tante realtà attive e che sembrano condividere tutte, a prescindere dall’ideologia o dal settore, una stessa missione: superare l’assistenzialismo. Vogliono fondare esempi di solidarietà costruiti sull’autonomia dei più fragili, liberandoli dall’eterna dipendenza da un benefattore, da un patrono. O dallo Stato: le oltre 6mila associazioni della provincia di Padova hanno bilanci per 12 milioni di euro, mostra il rapporto annuale del Centro servizi per il volontariato (Csv). E solo il 22 per cento di questi fondi, nel 2019, erano contributi pubblici. Il no profit qui vuole farsi da sé.

Patrizia Tolot cerca la chiave giusta in un mazzo che peserà un chilo, neanche San Pietro: «Scusa, è che avendo dodici sedi...». I molti indirizzi non sono un caso. Ma un metodo. Insieme a un gruppo di genitori di Padova, Patrizia è l’anima di “Down Dadi”, un’associazione - ora anche cooperativa e fondazione - che conta trecento iscritti. Fra loro ci sono novanta ragazzi che partecipano ogni giorno alle attività: un negozio dove vendono oggetti costruiti da loro; appartamenti condivisi dove abitano; sale dove vanno a ballare. L’obiettivo è uno solo: «L’autonomia. Quando ho affrontato la disabilità di mio figlio, l’unica risposta delle strutture sanitarie era: il centro diurno. Lo accompagni lì, lui fa i “lavoretti”, mangia, e poi lo riporti a casa. È vita questa? Per me no. Ho tre figli maschi. Per tutti e tre ho sempre cercato il meglio». Sfruttando ogni ora libera dal suo lavoro di insegnante, Patrizia ha avviato una rete che si impegna affinché le persone down possano lavorare, vivere da sole, prendere i mezzi, andare al bar con i colleghi, parlare di sessualità e di affetti. «Uno degli aspetti più difficili è convincere i genitori a credere nella possibilità che anche i figli disabili possano essere indipendenti; con un supporto esterno impegnativo, certo, ma indipendenti. L’altra sfida sono i conti: se volessimo ricevere finanziamenti pubblici dovremmo avere strutture solo con porte di tot centimetri, gestire i turni in modo rigido... Impossibile per i nostri progetti diffusi. Troviamo così fondi privati per pagare gli operatori».

La spinta ad arrangiarsi, anche nelle risorse, è una forza. Che rischia di diventare una condanna: per rispondere a bisogni che dovrebbero essere coperti dalle istituzioni, c’è il pericolo che le amministrazioni se ne approfittino. Delegando ad altri la responsabilità di garantire strumenti e mezzi a chi sta ai margini. «Sono un volontario, non uno stupido», risponde a questo rischio Emanuele Alecci, presidente del Csv padovano e artefice della candidatura europea: «Solo nell’emergenza va bene operare per anticipare lo Stato. Ma il nostro compito è fare pressione alle istituzioni perché agiscano come e dove serve». I volontari non devono essere supplenti delle burocrazie ma un’avanguardia, spiega, flessibile e libera. E un pungolo: «Io insisto sempre: se non è politico non è volontariato». Una vita nel sociale («ma lavoro alle Poste, dedico semplicemente il mio tempo», sottolinea), per spiegare perché Padova sia diventata capitale del volontariato, Alecci ricorda le radici dell’esperienza di Monsignor Nervo, staffetta partigiana e fondatore, da qui, della Caritas; l’apertura di Banca Etica; la prima missione del Cuamm, medici con l’Africa, partita sempre qui nel 1950. Ma più che la storia è la spinta contemporanea a voler rinnovare una visione della pratica solidale, a cementare un anno di iniziative che vuole essere un manifesto: «dobbiamo riuscire a attrarre giovani e adulti con progetti concreti, e una proposta nuova».

Per entrare nel sociale Doc del Nord Est bisogna andare in via Tiziano Aspetti 23, al confine del quartiere popolare di Arcella. Don Luca Favarin indossa una giacca di velluto blu a coste e beve vino biologico “Rosso Arcaico” insieme ad alcuni operatori della cooperativa “Percorso Vita” che ha fondato con Irene Pavanello. Anche questo bar, “VersiRibelli”, è un nodo della loro impresa sociale: vini bio, cicchetti veneti, luci calde, barman richiedenti asilo. «Non voglio che la gente venga qui “perché ghe xe i moreti”, per sentirsi buona. I giovani lo frequentano perché è bello, punto», inizia Favarin: «Io non sopporto il buonismo. Quello che cerchiamo di fare con la cooperativa è proprio superare l’atteggiamento buonista e assistenzialista tipico di un certo mondo cattolico». Da prete con queste idee e queste pratiche, Favarin è scomodo a tutti, dice: non piace «alle parrocchie che parlano di “micro-accoglienza”, uno profugo per chiesa. Un sistema che trovo sbagliatissimo, perché crea solitudine e dipendenza».

Non va a genio a una certa sinistra «per la quale una cooperativa è bella solo se è in crisi. Mentre noi abbiamo un bar, un ristorante, un’azienda agricola, e fatturiamo». Ed è ovviamente odiato dalla destra «perché quante volte mi son preso gli sputi addosso, gli insulti, le gomme bucate, i picchetti organizzati sotto le case dove portavamo accoglienza. Poi però quando le cose funzionano, guarda un po’, i picchetti si sciolgono». Favarin è stato missionario in Africa. Quando è tornato, ha deciso che serviva una scossa. «Vengo dal volontariato e penso che sia sacro. Proprio per questo ha bisogno di un recinto però. Volontariato e lavoro sociale non sono sovrapponibili. Donare tempo è una missione evangelica, mentre la professionalità di un lavoro, anche nel sociale, va riconosciuta in quanto tale».

Per questo ha fondato iniziative solidali che vogliono essere imprese che funzionano, non che vivacchiano su contributi pubblici. «Non facciamo questo mestiere perché siamo buoni ma perché siamo giusti. La bontà passa, la giustizia resta», continua: «Nelle nostre strutture rifiutiamo l’approccio infantilizzante che si ha normalmente con i richiedenti asilo. Dire “poverini” è esercitare una visione capitalistica, perché tende a rinnovare continuamente uno squilibrio di potere, dove loro sono condannati a essere deboli e “poverini”, gli altri bravi benefattori. Questa non è integrazione, è sudditanza. Noi cerchiamo di far sì che gli immigrati possano invece costruirsi la loro strada. Imparare un mestiere, lavorare, andare nel mondo a testa alta. Non devono essere costantemente segnati dalla condizione di partenza, di “poveri immigrati”».

Mauro Rolle detto Pablo è comunista, dice, ma ha incontrato Don Luca e scelto di partecipare a questa «missione laica che vuole smontare il pietismo costruendo un nuovo discorso sociale». Anni di attivismo alle spalle, Pablo ha due lavori, tre figli, una moglie «che minaccia sempre di lasciarmi perché non ci sono mai: ma per me il tempo è una categoria fordista, è fondamentale metterlo a disposizione della comunità». Ha un’associazione che si chiama “Mille e una Arcella” per dare orgoglio al quartiere dove abita. E una professione da cuoco, che esercita soprattutto a “Strada facendo”, il ristorante di “Percorso vita” dove vengono formati richiedenti asilo. «Guarda: siamo diventati il primo ristorante di Padova su Tripadvisor. Nei commenti alcuni fanno riferimento al valore del progetto, all’inclusione, ma la maggior parte scrive solo del menù, del servizio e del prezzo. Vuol dire che sta funzionando. Quest’anno abbiamo chiuso i bilanci in pari e possiamo continuare a assumere». A parlare sono Carolina e Stefano Ferro, osti, formatori e volontari del ristorante. Un passato in Banca Generali, un presente da consigliere comunale - «non sono mai stato così a corto di soldi ma va bene così, fra non molto sarò in pensione» - Ferro è convinto «che il volontariato deve essere sprone perché il pubblico eserciti il suo ruolo». Non è facile: «Sono andato decine di volte al ministero dell’Interno, insistendo perché riconoscano un permesso a chi si integra e trova lavoro. Altrimenti che senso ha l’accoglienza? Avevamo un aiuto cuoco nigeriano, bravissimo. Gli hanno respinto ogni richiesta di protezione. È finito clandestino a Rosarno, nei campi. È riuscito dopo mesi a raggiungere Lisbona. Ora è assunto in un ristorante di successo. La legge ci fa perdere». L’altra convinzione di Stefano e Carolina è che l’integrazione «passa dal lavoro vero. Non da quella parvenza dei lavori socialmente utili, che servono solo a gratificare gente con la coscienza sporca, dando in pasto agli odiatori un’immagine ammaestrata».

Entrambi sono appena tornati da Lesbo, dove sono stati grazie a una “carovana”, un’iniziativa di solidarietà, organizzata da Angela e Zeno. Angela, precaria, dopo un master in pasticceria è finita a fare tirocini da 16 ore al giorno sotto grandi chef. Ha detto basta dopo due anni di sfruttamento. Adesso produce e vende i suoi dolci ai mercati di “Genuino clandestino”. «Siamo andati a Lesbo a ottobre perché non ci bastava leggere dello stremo e delle condizioni indegne in cui l’Europa lascia lì in balia oltre 25mila persone. Dovevamo fare qualcosa», racconta: «Siamo tornati e abbiamo lanciato una raccolta fondi per portare kit igienici al campo. Ci sono cose impossibili da trovare sull’isola, come gli assorbenti. Abbiamo raccolto 15mila euro, che sono diventati materiali consegnati a dicembre ai profughi». Il 22 febbraio da Bolzano partirà un’altra carovana per aiutare i rifugiati bloccati lungo la rotta balcanica. Stesso obiettivo: rispondere a bisogni concreti, trasformando l’azione volontaria in mobilitazione sociale. «Alle nostre assemblee ci sono persone dai 22 ai 70 anni», raccontano Salvatore e Maria, rappresentanti della “Clac”, uno spazio appena sgomberato dall’ex mattatoio di Padova, dove da anni si riuniscono speleologi, artisti e volontari di “Cucine briganti”, che ogni venerdì raccolgono merce in scadenza ai mercati per offrire pranzi di comunità. Il 12 febbraio incontreranno il sindaco per capire il futuro dello spazio.

La giunta di centrosinistra, eletta nel 2017 grazie a una coalizione allargata, che anticipava il modello di collaborazione fra liste civiche e partiti a cui ha fatto appello di recente anche Romano Prodi dopo la vittoria in Emilia-Romagna, promette ascolto. «Ma un ascolto che valorizzi le dinamiche collettive: l’ex sindaco leghista Massimo Bitonci organizzava sedute chiamate “il sindaco ascolta”, ma erano individuali, per pochi minuti. È un modello distorto», riflette Cristina Piva, assessore locale con delega al volontariato. «Tutto passa invece dalle dinamiche cooperative che riesci a creare», prosegue Arturo Lorenzoni, vicesindaco, professore di ingegneria ambientale che confessa di aver imparato in campagna elettorale a preferire il titolo di “ingegnere” a quello di professore. È più radicato nella realtà, dice. «Le associazioni sul territorio riescono a intercettare prima e meglio i nuovi bisogni», continua: «penso al problema della non-autosufficienza, o della solitudine. In questo lavoro di ascolto e risposta il partito è un mediatore distonico. Un gruppo di dottorandi padovani aveva avviato un servizio di sostegno gratuito, a domicilio, per gli anziani. Si riunivano a Casetta Berta, uno spazio sgomberato dall’agenzia regionale per le case popolari poco fa».

La città di cui si era parlato in tutta Italia per il muro di via Anelli, che ghettizzava alcuni palazzi considerati problematici per via dello spaccio, sembra voler cambiare verso. «Ho sempre fatto l’imprenditore. Pensavo di conoscere la città, ma solo diventando sindaco ho scoperto la forza straordinaria delle associazioni», conclude Sergio Giordani, il sindaco, alzandosi per andare a un altro appuntamento («odio arrivare in ritardo»): «Quello che ho scoperto è soprattutto l’orgoglio di queste migliaia di volontari». L’orgoglio, gran motore. Renzo Frisio riparava macchine da scrivere e attrezzature d’ufficio. Oggi è uno dei quattro pensionati volontari che garantiscono l’apertura del battistero del Duomo di Padova, meraviglia dipinta nel Quattrocento da Giusto De Manabuoi: «Il Medioevo è la mia passione. Sapevi che Petrarca cambiò nome per dissociarsi dal padre, Petrocco, indagato per corruzione? Vieni, te lo indico. C’è tutto qui: c’è il bene, il male, la povertà, la disuguaglianza, la ricerca di giustizia». Renzo continua a spiegare, mentre una restauratrice cinese saluta, tornando sul trabattello con le sue colleghe, e la città fuori prepara i festoni per l’inaugurazione dell’anno del volontariato.