La percezione del rischio. Le domande al ritmo dell'ansia collettiva. Ma soprattutto la risposta del servizio d'emergenza in Emilia Romagna, tra richieste di tamponi e picchi legati alle notizie sui media. Parla Cosimo Picoco, il responsabile della centrale operativa di Bologna

«Il picco è stato lunedì: 3.031 telefonate. «In una giornata normale ne arrivano fra 800 e 900. Il 22 febbraio sono state 1.400. Il giorno dopo 2.180. Lunedì è stata la giornata più dura: abbiamo ricevuto in un solo giorno 3.031 chiamate». Cosimo Picoco è il responsabile della centrale operativa del 118 Emilia Est, un'area che comprende Bologna, Modena e Ferrara. L'uomo che coordina le richieste di aiuto in emergenza di oltre due milioni di residenti, ha vissuto i momenti più concitati dell'allarme coronavirus da un'osservatorio unico. Il 118 infatti resta il primo approdo, ovunque, per le richieste generate dalla paura sanitaria. E benché fosse stato già creato il numero verde nazionale (1500) poi supportato da altri numeri locali, è rimasto il riferimento principale per chiunque, anche su indicazione delle stesse sanità regionali. Un servizio di frontiera, insomma, di fronte al panico scatenato dall'epidemia, che ora le fonti istituzionali stanno cercando di stemperare. Nonostante le quarantene, i talk-show, le mascherine in diretta e i controlli nelle zone rosse. L'Emilia Romagna, seppur non colpita direttamente da un focolaio, ha contato decine di casi sospetti, e quindi applicato le stesso stato d'eccezione di Veneto e Lombardia. Mentre sui social impazzavavano gli strilli, Picoco mantiene una voce serena.

«Abbiamo potuto fin da subito raddoppiare gli operatori al centralino d'ingresso delle telefonate», racconta. «Siamo riusciti così a contenere l'aumento dei tempi d'attesa. Normalmente per il 90 per cento delle chiamate sono di 8/9 secondi; il 24 febbraio sono stati di 24 secondi». Una risposta immediata insomma: quello che cercano le persone impaurite più dall'infodemia, come raccontavamo qualche giorno fa, dall'abbondanza di informazioni contraddittorie e allarmanti, che non dalla paura concreta di un'infezione che in oltre l'80 per cento dei casi si risolve con sintomi lievi. Gli effetti della paura legati alla comunicazione dell'emergenza erano concreti anche sul 118: «Potevamo notare dei picchi giornalieri in corrispondenza delle notizie relative a un nuovo caso accertato, per esempio. È un meccanismo comprensibile: in quei momenti aumentava la percezione del rischio da parte della popolazione».

Dare risposte concrete, fin da subito. La centrale operativa di Bologna ha provato a farlo raddoppiando le voci (da 8 durante il giorno e 7 di notte a 14 - «perché la gestione del quotidiano deve continuare comunque, ovviamente»), e soprattutto attivando una collaborazione con il servizio di sanità pubblica e con igienisti che stessero a fianco degli operatori per prendere rapidamente le telefonate delle persone che sembravano più a rischio. «È stato enormemente interessante anche per noi lavorare fianco a fianco. Duro, ma interessante», racconta Picoco. Perché gli igienisti intervenivano con un colloquio che serviva a capire se il caso andasse approfondito, oppure no, considerando sintomi e percorso. «Questo sistema ci ha permesso di prendere in carico immediatamente alcuni soggetti. Pochi in realtà: da venerdì a martedì, su migliaia e migliaia di telefonate, abbiamo predisposto approfondimenti, ovvero la verifica con approfondimento diagnostico, solo su 15 pazienti a Bologna, 12 a Modena e 2 a Ferrara. Molti di questi sono risultati poi negativi». Per eseguire i trasporti al reparto di malattie infettive, sono state dedicate due ambulanze, che vengono sanificate prima e dopo l'accompagnamento. «I tamponi nel nostro caso, almeno nella fase iniziale non sono stati fatti a domicilio, ma trasportando le persone direttamente al reparto di malattie infettive».

Gli approfondimenti diagnostici, compreso il tampone, sono stati avviati fin  da subito solo per i casi in cui gli igienisti ritenevano possibile il rischio di un contagio. Ma larga parte delle tremila telefonate arrivate al 118 era invece rivolta proprio a quel test: «Tanti ci chiamavano per chiedere di poter fare il tampone, oltre che per domande generali sulla malattia». Chi sottoporre ai test sul COVID-19 e chi no. È la domanda chiave di questi giorni. L'Italia, dopo aver enormemente allargato lo spettro delle verifiche (oltre 10mila tamponi, contro i mille di paesi come Francia e Germania), sembra voler rallentare il passo, avendone capito le conseguenze in termini di percezione del rischio e di innesco di politiche difensive e di allarmi che schiacciano, anziché aiutare, chi sta veramente lavorando sul contagio, ovvero i presidi sanitari. I medici, le dottoresse, gli operatori e gli infermieri che ogni giorno stanno dando il massimo per dare risposte. Entro 24 secondi.