Il conflitto nella penisola araba ha le sue radici nel 2011 ed è ancora oggi in corso. E tocca interessi economici e geostrategici con molti protagonisti: a cominciare da Riad e Teheran

La guerra yemenita ha radici nella primavera araba del 2011, quando i manifestanti scesero in piazza, rivendicando democrazia e riforme contro il presidente Ali Abdullah Saleh e chiedendo le dimissioni del suo trentennale governo. Saleh concesse parziali riforme economiche ma rifiutò di dimettersi, trasferendo i poteri al vicepresidente Abd Rabbu Mansour Hadi e aprendo la strada alle elezioni del febbraio 2012.

I tentativi di riforme costituzionali proposti da Hadi furono ostacolati dai ribelli Houti, appartenenti a un ramo dell’Islam sciita noto come Zaydista e sostenuti militarmente dall’Iran.

Le speranze di quella che era sembrata una storia di successo della primavera araba sono svanite velocemente. L’inefficacia del governo di Hadi, l’economia in ginocchio e la corruzione endemica hanno portato gli Houti a guadagnare sempre più potere, fino a occupare la capitale, costringendo Hadi a fuggire in Arabia Saudita.

L’occupazione della capitale da parte degli Houti, sciiti, ha scatenato nel Golfo il timore per l’espansione dell’influenza iraniana sui loro confini.

L’Arabia Saudita nel marzo 2015 ha risposto lanciando un intervento militare (riunendo una coalizione di nove paesi) sotto la guida dell’allora ministro della difesa, poi nominato principe ereditario Mohamed Bin Salman, per estromettere gli Houti e ripristinare il governo dell’ex presidente Hadi.

La coalizione ha scatenato un’intensa campagna aerea, insieme a un paralizzante blocco marittimo e aereo che ha portato lo Yemen sull’orlo della carestia.

Gli Emirati Arabi Uniti hanno guidato l’offensiva di terra con una forza messa insieme da mercenari, combattenti sudanesi janjaweed e milizie yemenite e gli Stati Uniti hanno fornito supporto logistico, e rifornimento in volo, accelerando le consegne di armi sia in Arabia Saudita che negli Emirati Arabi Uniti. L’intervento, nelle intenzioni della coalizione, avrebbe dovuto concludersi in qualche mese, ma è in stallo ormai da anni.

Gli Houti detengono gran parte delle province occidentali del paese, tra cui Sana’a, e gli altopiani vicino al confine saudita, nonché una parte della costa del Mar Rosso dello Yemen.

A dicembre gli Houti e il governo yemenita hanno firmato un accordo di pace sostenuto dalle Nazioni Unite a Stoccolma che avrebbe dovuto essere la svolta che avrebbe avuto inizio con un ritiro congiunto delle truppe da Hodeidah, il porto più strategico dello Yemen e la linea di vita dell’approvvigionamento.

La coalizione saudita imputa agli Houti l’utilizzo di Hodeidah per controllare i flussi di aiuti e il contrabbando di armi. E entrambi si accusano di violare gli accordi di cessate il fuoco.

A giugno, gli Emirati Arabi Uniti hanno annunciato un abbattimento delle forze militari degli Emirati intorno a Hodeidah come parte di una “misura di rafforzamento della fiducia” unilaterale per dare il via al processo di pace in stallo. Ad agosto i separatisti del Sud, Southern Transitional Council (STC) altro attore del conflitto, sostenuti e addestrati dagli Emirati, hanno occupato alcune basi militari ad Aden. La guerra ha rianimato vecchie tensioni tra il nord e il sud dello Yemen, paesi precedentemente separati che si sono uniti in un unico stato nel 1990.

L’obiettivo dei separatisti è infatti quello di fare di Aden la capitale di uno Stato indipendente dallo Yemen. Fino a pochi mesi fa, il Consiglio era alleato dei miliziani fedeli al presidente Abd Rabbo Mansur Hadi, contro il nemico comune: i ribelli sciiti Huti. Con l’occupazione delle basi e il conseguente bombardamento da parte della coalizione guidata dall’Arabia Saudita, si è creata una profonda crepa nell’alleanza sunnita, che sottolinea gli interessi contrapposti di Arabia Saudita e Emirati nell’area e rende più difficile per la coalizione indebolire la presa degli Houti che detengono Sana’a e la maggior parte dei popolosi centri urbani.

La settimana scorsa un gruppo di droni ha colpito due stabilimenti della Aramco, l’azienda statale saudita di idrocarburi, uno a Abqaiq, l’altro a Dhahran. Si tratta di due impianti altamente strategici, asset fondamentale degli introiti sauditi.

L’attacco è stato rivendicato dal portavoce militare degli Houti. Secondo un’indagine della Cnn gli ordigni sarebbero partiti da una base iraniana per poi volare sopra il Kuwait.

Subito dopo l’attacco il segretario di stato americano Pompeo aveva accusato l’Iran minacciando dure conseguenze. Il costo del petrolio ha subito un’impennata, e le tensioni di questi giorni si aggiungono a quelle vissute nel golfo a giugno, dopo gli attacchi alle petroliere. Azioni di cui sia i sauditi che il governo statunitense avevano accusato l’Iran.

La guerra yemenita potrebbe, dunque, subire una nuova escalation militare, a danno della già esausta popolazione civile, diventando ancor di più terreno di scontro al centro dell’accordo sul nucleare Usa-Iran e delle agende iraniane e saudite sul golfo.