La Lega raggiunge il risultato storico del 34 per cento grazie al manuale spietato del Capitano, capace di parlare al ventre di un Paese che non ha più nulla di moderato. Il Pd resta in campo, più forte elettoralmente, al secondo posto in classifica con M5S in picchiata
«Ho una forza incredibile», dice di sé Matteo Salvini all'una di notte, e via sbrodolando: l'Europa che cambia, il cuore immacolato di Maria, i valori, il ringraziamento a chi «lassù non aiuta la Lega ma l'Italia», la «missione storica», l'attacco a chi ha provato a bloccarlo con «minacce, oltraggi, processi», «abbiamo vinto contro tutto e tutti» nonostante il salto sul carro dei vincitori fosse già partito da tempo... Resta il risultato storico per la Lega, il 34 per cento, che proietta il capo della Lega in vetta alla classifica, toccato in settanta anni di storia della Repubblica solo da Dc, Pci, Ulivo-Pd e Silvio Berlusconi, più il Movimento 5 Stelle alle elezioni politiche di un anno fa, risultato cancellato dal disastro delle elezioni del 26 maggio.
In una notte elettorale buia per l'Italia e in chiaroscuro per l'Europa, dove i governi sovranisti volano nelle nazioni che controllano, dall'Ungheria alla Polonia, seguiti dagli sfasciacarrozze di professione come Marine Le Pen e Nigel Farage, Salvini prova a costruirsi un vestito da capo europeo, nell'Unione dove la maggioranza Ppe-socialisti-liberali e verdi è numericamente forte, ma politicamente debole se pensa di isolare l'Italia e i paesi dell'Est.
Come nel 2014, l'anno di grazia di Renzi, dalla notte elettorale emerge solo un leader in campo, circondato da macerie, il Matteo leghista. Il risultato di una strategia spericolata che si è rivelata vincente grazie alla pochezza dell'alleato di governo, il Movimento 5 Stelle, che un anno fa era il padrone della politica italiana e oggi si riduce a dichiararsi ago della bilancia, come fu un tempo Angelino Alfano.
Si invertono le parti anche su un piano elettorale, è la Lega che quasi doppia M5S, dopo dodici mesi di egemonia leghista nel governo su tutti i temi, dall'immigrazione alla sicurezza. Salvini ha mollato Silvio Berlusconi, ha scommesso che un movimento senza cultura politica e senza una classe dirigente degna di questo nome sarebbe finito per farsi colorare da un alleato che al contrario aveva una forte cultura politica e una leadership monolitica. Di Maio è caduto nella trappola, si è comportato come una stampella, una ruota di scorta, i parlamentari M5S sono stati per un anno una massa di manovra interamente ipnotizzata dal suo partner minore che ora detta le condizioni: via tutti i temi cari al movimento, dal blocco della Tav al conflitto di interessi, si parla solo di flat tax, grandi opere, sicurezza, stop all'immigrazione.
Un ricatto politico spedito all'indirizzo del povero vice-premier del Movimento: o butti nel cestino le clausole del contratto che ti stanno più a cuore oppure ti assumi la responsabilità di mandare il paese a nuove elezioni anticipate, con la prospettiva di perdere i due terzi degli attuali gruppi parlamentari. Messa così, per M5S non ci sono molte alternative: continueranno a fare da cassa di risonanza del verbo salviniano, almeno finché non spunterà una nuova leadership. Perché quella di Di Maio è un monumento al complesso di inferiorità, chissà come chissà quando. Perché il Movimento era uno stato gassoso, evanescente, reso carne e sangue solo dal voto degli elettori che ora non c'è più. E dunque o si mantiene quello che ha, una qualche posizione di potere, o evapora del tutto.
Il contrario del manuale del Capitano che ha puntato su un mix di vecchio e nuovo. Un'ideologia feroce e reazionaria, capace di parlare a un ventre del Paese che non ha più nulla di moderato. Un'organizzazione territoriale che in alcune regioni del Nord significa maggioranza assoluta, in Piemonte vuol dire una probabilissima sconfitta e nelle ex regioni rosse del Centro, in Emilia, nell'Umbria dello scandalo della giunta Marini, porta a conquistare il primo posto a spese del Pd. E i social, il messaggio ossessivamente rimbalzato da militanti a elettori, con determinazione e ferocia assoluta. Quello che è mancato all'alleato di governo, e al principale partito di opposizione.
Il Pd resta in campo, più forte elettoralmente, al secondo posto in classifica con M5S in picchiata. Quel che basta a Nicola Zingaretti per tirare un sospiro di sollievo rispetto al disastro renziano di un anno fa, ma che non può nascondere la fragilità dell'opposizione. Non c'è in Italia la parvenza di quelle forze che nel resto d'Europa fronteggiano e frenano l'avanzata dei sovranisti: i verdi, gli ambientalisti, i giovani, i movimenti. Una cultura di governo che si incarna in alcune esperienze cittadine, ad esempio la Milano di Beppe Sala dove la Lega al massimo storico non arriva al primo posto in città. Senza la reazione di questi mesi, dagli striscioni alla mobilitazione di un pezzo di Paese, sarebbe andata peggio. Ma ora c'è bisogno di forme organizzative nuove, una classe dirigente, una tavola di valori che non può essere soltanto quella antica. Tutto quello che manca e che oggi in Italia possiede un solo leader, il più pericoloso, Matteo Salvini. Che dovrebbe ricordare che la forza più incredibile può rapidamente tramontare.